Da Liberazione
- L’articolo 53 della Costituzione dice, testualmente, che “tutti sono
tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva” e che “il sistema tributario è informato a criteri di
progressività”.
Queste semplici e icastiche parole scolpiscono nella
Legge delle leggi due precetti fondamentali che fondano il patto
sociale. Il primo è che pagare le tasse non è un’opzione declinabile, ma
un obbligo di ogni cittadino, affinché lo stato possa svolgere la
funzione redistributiva della ricchezza complessiva generata dalla
comunità nazionale; il secondo è che la misura del contributo di ognuno,
per rispondere a criteri di equità, deve essere non soltanto
proporzionale, ma progressiva.
In parole povere, chi ha di più deve
pagare di più. E se quel “di più” è molto consistente, il cittadino che
ne dispone deve corrispondere un obolo ancora più consistente.
Non
si tratta – come ululano i ricchi e le destre (che dei ricchi sono il
megafono) - di una rapina, ma di un atto di giustizia, di qualcosa che
ha a che fare con il principio di uguaglianza, che i Costituenti hanno
voluto affermare come condizione che rende effettiva, e non soltanto
formale, la libertà. Quella di tutti e di tutte, non quella di pochi.
Cosa sia in realtà accaduto nel corso degli ultimi trent’anni è noto,
ma merita rammentarlo, ad ammaestramento dei labili di memoria, perché
nel tempo si è fatto l’esatto opposto.
L’Irpef, acronimo che sta per
“Imposta sul reddito delle persone fisiche”, prevedeva, ancora nel
1971, 32 scaglioni di reddito ed altrettante aliquote: dalla più bassa,
che valeva il 10 per cento, alla più alta, che arrivava all’82 per cento
per i redditi oltre i 500 milioni di lire. Ma già nel ’75 la
progressività dell’imposta veniva attenuata e l’aliquota massima
scendeva al 72 per cento, dieci punti tondi in meno. Otto anni dopo,
siamo nell’83, gli scaglioni vengono ridotti a nove e l’aliquota cala
ulteriormente al 65 per cento. Il trend continua negli anni successivi,
ma è un vero crollo: in cima alla piramide dei redditi l’aliquota passa
al 51 e poi al 45 per cento con soli cinque scaglioni. Infine, nel 2007,
si assesta al 43 per cento.
La funzione redistributiva del sistema
fiscale è stata dunque pesantemente compromessa, al netto di altri
poderosi balzelli, le cosiddette imposte indirette, che pesano in modo
eguale, cioè né proporzionale né progressivo, su tutti i cittadini. Ne
sono colpiti i consumi di ogni genere e tipo, a partire da quelli più
popolari, che si possono ridurre, ma non estinguere: gli alimentari, la
luce, il gas, la benzina. Insomma, su tutto ciò che è indispensabile per
la mera riproduzione dell’esistenza, si paga dazio, in omaggio al
sarcasmo di Petrolini che ricordava che “i poveri sono sì poveri, ma
sono tanti”, per cui battendo lì il maglio si va all’incasso copioso e
sicuro, alla maniera dello sceriffo di Nottingham.
Un’attenzione
speciale il fisco anticostituzionale l’ha poi dedicata al lavoro. La
mancata restituzione di quanto estorto dal drenaggio fiscale (il fiscal
drag) – meccanismo perverso che in ragione di aumenti puramente nominali
del salario dovuti all’inflazione fa pagare ai lavoratori dipendenti
più tasse di quante non ne preveda la legge! – dice quanto in là si sia
spinta la fantasia unidirezionale dei gabellieri al governo che hanno
spostato sul lavoro e sulle pensioni tutto il carico tributario.
Da
ultimo, in ordine di tempo, l’Imu, il colpo di scure sulla casa, il solo
bene patrimoniale, spesso frutto dei sacrifici e dei risparmi di una
vita, condiviso dalla maggior parte dei cittadini.
In zona franca,
invece, garantiti e protetti, pascolano i redditi da capitale,
conosciuti con il nome di profitti, e le rendite, i tesori occultati da
molti lestofanti con la frode o grazie al florilegio di norme elusive
che la legge ha messo loro a disposizione: una montagna di soldi
patrimonializzati sotto forma di quadri, mobili di antiquariato,
lingotti d’oro, ville, panfili e, naturalmente, investimenti finanziari
di natura speculativa.
Sullo sfondo, una prodigiosa evasione
fiscale, stimata in 230 miliardi. Una pratica, quella della frode
fiscale, che Berlusconi, da presidente del consiglio blandì giustificò
sospinse come strumento di “autodifesa”. Dei suoi pari e sodali,
ovviamente.
Va da sé che la spoliazione dell’erario ad opera dei
ricchi sta determinando, di rimbalzo, un’altra beffa: la distruzione del
welfare (previdenza, sanità, assistenza), sicchè del sistema di
protezione sociale, dopo la cura del sultano di Arcore e dell’uomo della
Trilateral, resta ormai ben poco.
Qualche irriducibile bolscevico
suggerisce che tutto ciò abbia qualcosa a che fare con la lotta di
classe (quella condotta da una parte sola, of course). Ma sono solo
maldicenze che servono ad alimentare l’invidia dei poveri i quali, da
quando mondo è mondo, vorrebbero derubare i loro padroni.
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