L’Alto Adige ha recentemente dedicato nell’ambito di un intervista molto spazio ad un esponente di Forza Nuova a Merano, dando un immagine di un partito formato da “bravi ragazzi” definito nell’intervista con un eufemismo “raggruppamento di profonda destra”. Noi preferiremmo definirli per quello che sono: fascisti.
Al fine di controbilanciare i contenuti dell’intervista forse sarebbe importante dare ulteriori informazioni su Forza Nuova: è il partito fondato da Roberto Fiore (fondatore del gruppo neofascista Terza posizione) e Massimo Morsello (ex membro dei NAR di Fioravanti), condannati e ricercati dalla magistratura italiana per associazione sovversiva e costituzione di banda armata e ideologi del movimento che si ispira a Mussolini e a Codreanu (leader fascista rumeno degli anni '30). Fiore rientrò infine in Italia in seguito alla prescrizione della pena, pronunciata dalla Corte di Appello nel marzo del 1998. In un intervista all’ “Espresso” nel febbraio 2000 Morsello dichiara tranquillamente: "Siamo fascisti dichiarati". Mentre Fiore aggiunge: “Vogliamo restituire l'onore agli italiani. Che cosa intendo per onore? L'essere fedeli a se stessi, alle proprie radici e al proprio mandato divino. Un esempio? Non dover chiedere scusa al mondo per essere stati fascisti". Inoltre basta dare un occhiata al programma politico di Forza Nuova per scoprirne la vera identità. I contenuti si rifanno inequivocabilmente all’ideologia fascista: corporativismo, xenofobia, omofobia, integralismo religioso, idee colonialiste.
Rifondazione Comunista si appella a tutte le forze democratiche di Merano affinché non si abbassi la guardia e si contrasti con tutti i mezzi democratici ed in nome dell’antifascismo dal quale è nata la Repubblica Italiana una diffusione delle idee autoritarie e liberticide delle quali Forza Nuova è portatrice, e non ci si lasci ingannare dall’aspetto da “bravi ragazzi” dei militanti della destra estrema.
David Augscheller - consigliere comunale PRC Merano
9 commenti:
W FORZA NUOVA
ABBASSO IL COMUNSIMO
REFERENDUM SULL' ABORTO
Mentre la vita politica agonizza su un referendum elettorale che nulla importa agli Italiani, si prepara in modo chiaro lo scontro epocale sull'aborto.
Dopo le interessanti esternazioni sul tema di Giuliano Ferrara, ieri è intervenuto con una chiara chiamata alle armi, Benedetto XVI.
Forza Nuova ritiene oramai arrivato il tempo del referendum abrogativo della 194.
Non vi sono motivi per mantenere una legge che ha solamente portato alla eliminazione sistematica di generazioni di Italiani ed all' allargamento di una ferita nel tessuto morale della nostra Nazione.
Il referendum abrogativo preceduta da un dibattito scientifico ed etico simile a quello che ha accompagnato il referendum sulla fecondazione artificiale, segnerà definitivamente la sconfitta della cultura nichilista e dissolutoria in Italia.
Il movimento politico Forza Nuova comunica che sabato 02 febbraio i militanti pugliesi scenderanno in piazza a Bari, Lecce e Foggia per proseguire direttamente nelle piazze la raccolta firme finalizzata a sfiduciare il governo regionale guidato da Nichi Vendola.
Gli attivisti forzanovisti allestiranno banchetti nei centri cittadini delle suddette città, dove sarà possibile, durante le ore pomeridiane, esprimere il proprio dissenso firmando i moduli di sfiducia verso la politica vessatrice e antisociale della giunta regionale, fatta di falsi proclami e promesse non mantenute. Politica coronata nella creazione di un colossale deficit sanitario e nella consequenziale imposizione di nuove e gravose tasse che andranno a colpire tutti i contribuenti pugliesi, a dimostrazione dell'assoluta incapacità e della mancanza di ogni programmazione della giunta regionale.
Saranno inoltre distribuiti centinaia di volantini di denuncia della condotta ingorda e divoratrice portata avanti dalla giunta Vendola, che in due anni e mezzo è stata protagonista in negativo di sperperi, mancati investimenti e regalie politiche di ogni genere e grado. Per non parlare della moltiplicazione di assessorati, commissioni e consulenti veri e meno veri, tutti profumatamente pagati da noi contribuenti.
Volantinaggi itineranti saranno contemporaneamente effettuati in altri comuni pugliesi.
Per ulteriori informazioni, contattare i seguenti recapiti:
Bari:
080.21247288
Si è svolto a Bolzano il primissimo gazebo di Forza Nuova, con distribuzione di materiale informativo in italiano e tedesco. Ottima l’organizzazione operata dal segretario meranese e da tutti i militanti; molto buono il riscontro con la popolazione locale, soprattutto con i giovani, anche tirolesi, che si sono interessati alle iniziative e alle idee del movimento. Il neo-gruppo studentesco, ha inoltre distribuito 300 volantini nel giro di un’ora davanti al polo studentesco di Bolzano, anch’essi con esito decisamente positivo. La stampa ci ha raggiunto nel finale e con qualche scatto fotografico se n’è andata senza richiedere informazioni. Dal punto di vista dell’opposizione infine, il movimento antifa ha lanciato allo sbaraglio due ragazzini tirolesi assoldati per l’occasione, i quali hanno volantinato per qualche minuto e senza autorizzazione nei pressi del nostro gazebo, avvertendo la cittadinanza del “pericolo fascista”, di estremisti antisociali e antidemocratici (?!). Solo poche parole a questo misero e fallimentare tentativo: i 2 ragazzini sono stati solamente tenuti d’occhi da alcuni camerati, quindi né cacciati, né sfiorati da alcuno, questo dovrebbe far pensare circa la nostra presunta non democraticità. Potevamo ma non abbiamo, che qualcuno rammenti, e si tenga più attento in futuro! Per il resto, i presupposti per una vincente attività sul territorio ci sono tutti perché Forza Nuova rappresenta la vera e unica avanguardia di pensiero e d’azione, sociale e rivoluzionaria, che va oltre la struttura etnica e partitica dell’Alto Adige, battendosi contro l’apartheid guidato dalla SVP e contro la politica corrotta e senza prospettive di AN e degli altri partiti italiani.
Alessandro Marocchi - Coord. Regionale TT.AA
Roma 4 Febbraio 2008
CIAVARDINI ASSOLTO
Questa giornata di gioia è dedicata a quelli che non hanno smesso di sperare e di credere.
Da "Il Resto del Carlino"
Ciavardini assolto in appello per rapina
Sono cadute in appello le accuse di rapina per l'ex militante dei Nar, condannato in primo a 7 anni e 4 mesi per un colpo in banca, avvenuto nel settembre del 2005, ai danni di una agenzia dell'Unicredit, a Roma. Nell'aprile scorso la Cassazione ha condannato definitivamente Ciavardini, a 30 anni di reclusione per la partecipazione alla strage di Bologna.
Roma, 4 febbraio 2008 - Assolto per non aver commesso il fatto. Sono cadute in appello le accuse di rapina per Luigi Ciavardini, l'ex militante dei Nar, condannato in primo a 7 anni e 4 mesi per un colpo in banca, avvenuto nel settembre del 2005, ai danni di una agenzia dell'Unicredit, a Roma. L'assoluzione, pronunciata dal presidente della II corte d'appello, Giuseppe Pititto, è stata emessa in base all'articolo 530 secondo comma del codice di procedura penale, la vecchia insufficenza o contraddittorietà delle prove. In primo grado il gup Adele Rando aveva aumentato la pena, rispetto alle richieste del pm Paolo Auriemma, che aveva chiesto la condanna di Ciavardini a 4 anni e 4 mesi. La decisione del giudice era dovuta al fatto che fu attribuito all'imputato anche il porto abusivo di una pistola e altre tre rapine `minori', con riferimento alla sottrazione di due cellulari ad altrettanti clienti della banca e di un'arma da fuoco a una guardia giurata. La difesa di Ciavardini, rappresentata dagli avvocati Valerio Cutonilli e Stefano Marsano, aveva optato per il rito abbreviato nella speranza che il caso si chiudesse con un proscioglimento. L'ex militante dei Nar ha sempre negato ogni responsabilità: "Quel giorno ero ospite della festa di Azione Giovani, `Atreju' in Parco delle Tre Fontane, e presentavo in uno stand il mio libro sulla strage alla stazione di Bologna", si era difeso all'indomani del suo arresto. Nell'aprile scorso la Cassazione ha condannato definitivamente l'ex Nar (Nuclei armati rivoluzionari), a 30 anni di reclusione per la partecipazione alla strage di Bologna. In quel caso è stata confermata la sentenza della sezione minori della corte d'appello che si era espressa nel 2004.
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- IL COMITATO -
Il comitato “L’ORA DELLA VERITA’” è stato costituito da persone di diverse opinioni politiche, ma di comune sensibilità per le cause di Giustizia, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo la vicenda giudiziaria relativa alla strage di Bologna.
La sentenza di condanna nei confronti di Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti, assistita ormai dagli effetti del giudicato, ha suscitato la forte perplessità di moltissimi cittadini, soprattutto di quelli che hanno seguito i numerosi processi per la strage senza idee preconcette ed in modo documentato.
A reclamare la colpevolezza degli imputati, più che l’inoppugnabilità di elementi probatori, sembrano esservi stati da un lato una assai travisata “ragion di stato”, dall’altro gli atteggiamenti “sclerotici” di qualche partito, preoccupato unicamente di imporre la propria ricostruzione storica del periodo della strategia della tensione.
Le ombre che da sempre gravano sull’episodio più atroce della storia italiana contemporanea dunque, lungi dall’essere eliminate, permangono ancora, suscitando inevitabilmente il fondato timore che degli innocenti stiano pagando un prezzo assurdo, morale prima ancora che giuridico, per un fatto che in realtà non hanno commesso.
Il processo per la Strage di Bologna rimane ancora oggi una sorta di storia kafkiana, ben difficile da raccontare a chi non l’ha seguita personalmente.
E’ una storia kafkiana in cui i testimoni chiave dell’accusa sembrano affetti da tumori che, dopo il congedo dai penitenziari, svaniscono “miracolosamente” nel nulla.
E’ una storia kafkiana dove i testimoni chiave dell’accusa depongono, ritrattano, ritrattano la ritrattazione ma rimangono sempre credibili.
E’ una storia kakfiana dove i testimoni chiave dell’accusa sono seccamente smentiti dalle stesse mogli le cui deposizioni, però, non vengono mai considerate rilevanti.
E’ una storia kafkiana in cui viene attribuita credibilità a testimoni, responsabili di stupri ed omicidi, che tornati liberi grazie ai benefici di legge ottenuti, riprendono immediatamente ad uccidere persone indifese.
E’ una storia Kafkiana in cui compaiono telefonate ritenute incriminanti che nessuno dei testi in realtà ricorda.
E’ una storia kafkiana in cui i depistaggi operati dai servizi segreti, contro la destra, hanno portato alla condanna definitiva di esponenti “autorevoli” del sismi, per calunnia e detenzione di esplosivi, gli stessi usati per massacrare 85 vittime innocenti il 2 agosto del 1980.
Il comitato “L’ORA DELLA VERITA’” non crede alle storie kafkiane ma invoca Verità e Giustizia, laddove questa è ancora possibile.
La Verità, gradita o meno che sia, è il Valore supremo è più importante della “ragion di stato” , delle mere convenienze di partito o delle puerili simpatie di parte.
La Verità è dovuta alle 85 vittime innocenti della strage di Bologna cui non si possono e non si devono offrire colpevoli di comodo.
E’ dovuta a quei 57 milioni di italiani che mandano i propri figli a studiare in Inghilterra, convinti ancora che il metrò londinese è un luogo sicuro per la gente comune.
E’ dovuta a quei ragazzi di 19 anniche si iscrivono alla facoltà di Giurisprudenza perché credono ancora nell’ideale di Giustizia.
E’ dovuta a chi rischia, ancora oggi, di pagare di persona per fatti che in realtà non ha commesso.
La vicenda giudiziaria della strage di Bologna, infatti, per qualcuno non si è ancora conclusa.
Esiste un terzo imputato, sconosciuto alla maggior parte degli italiani, che è stato giudicato separatamente, dal Tribunale dei Minori, perché nel 1980 aveva solo 17 anni.
Si chiama Luigi Ciavardini e la sezione minorile della Corte d’Appello di Bologna lo ha condannato a 30 anni di reclusione per concorso in strage.
La sentenza, su più punti, ha lasciato sconcertati molti di coloro che hanno potuto averne visione, inducendoli inevitabilmente a porsi seri problemi di Coscienza.
E’ ormai prossimo il giorno in cui i Giudici della Suprema Corte di Cassazione saranno chiamati a pronunciarsi definitivamente su questa vicenda.
L’ultima parola sulla pagina più tragica della storia italiana contemporanea verrà proferita a Roma, Patria del Diritto, e ciò non può non indurre a coltivare la Speranza tutti quelli, come noi, che si ostinano a credere nella Giustizia.
Oggi, infatti, è ancora possibile impedire che il caso umano e giudiziario di Luigi Ciavardini diventi la riproposizione italiana del dramma di Sacco e Vanzetti.
Ma per arrivare a questo, per far sì che 57 milioni di italiani ascoltino questo grido accorato di Giustizia, serve il coraggio e la partecipazione di tutti gli Uomini di buona volontà. Di Voi.
Roma, 2 agosto 2006
E’ trascorso un anno esatto dalla costituzione del Comitato “l’ora della verità”.
I risultati ottenuti in questi mesi appaiono - di gran lunga - superiori a quelli auspicati la sera in cui venne presentata alla cittadinanza romana la nostra iniziativa, sorta con l’unico fine di sensibilizzare l’opinione pubblica in ordine alla vicenda storica e giudiziaria relativa alla Strage alla stazione ferroviaria di Bologna.
Senza godere di alcun forma di finanziamento, affidandoci unicamente alla nostra buona volontà, siamo riusciti ad organizzare - in ogni regione italiana - più di sessanta convegni.
Ad oggi, il Comitato può contare sul sostegno attivo di alcune decine di migliaia di cittadini italiani e sull’adesione di parlamentari appartenenti a sette diversi partiti politici.
Tuttavia, l’attenzione prestata alle nostre attività dagli organi di informazione resta ancora insoddisfacente.
E’ un’attenzione che va ritenuta insoddisfacente perché la vicenda giudiziaria relativa alla Strage di Bologna - l’atto terroristico più grave della storia italiana - non è ancora terminata.
E’ una vicenda che risulta ancora d’attualità.
Luigi Ciavardini - giudicato a parte in quanto all’epoca dei fatti era appena diciassettenne - rimane in attesa che la Suprema Corte di Cassazione si pronunci in modo definitivo sulla sua posizione.
Il 13 dicembre 2004, la sezione minorile della Corte d’Appello di Bologna lo ha condannato alla pena detentiva di 30 anni, ritenendolo uno degli autori della Strage di Bologna.
Eppure, l’innocenza di Ciavardini viene sostenuta - con argomenti ineccepibili - da tutti coloro che hanno seguito da vicino, e senza pregiudizi politici, la vicenda giudiziaria relativa all’attentato del 2 agosto 1980.
In questi mesi di intensa attività, ci siamo resi conto di come l’estraneità di Ciavardini alla Strage di Bologna, al pari di quella di Mambro e Fioravanti, sia stata largamente riconosciuta dalla società italiana.
Il “fronte” spontaneo dell’innocenza, vasto e trasversale, muove da un ex Capo di Stato, Francesco Cossiga – Presidente del Consiglio nella drammatica estate del 1980 – ed arriva a Gianluca Semprini, il giornalista di sky, dichiaratamente schierato a sinistra, che ha firmato il libro-inchiesta divenuto in fretta il manifesto dell’innocenza dei tre ex militanti dei NAR.
Abbiamo preso atto, dunque, di quanto ampia sia la forbice che - nella vicenda in questione - separa la verità “formale” offerta in ambito giudiziario dalla Verità materiale, invocata da tutti coloro che, a prescindere dalle preferenze politiche, credono ancora nella Giustizia.
La speranza che alimenta la nostra passione civile è che tale forbice possa iniziare finalmente a ridursi, in un clima di ritrovata serenità, nel prossimo futuro.
Oggi che è ancora possibile.
Questa speranza sta accomunando tutti quei cittadini, di differente provenienza politica, che non intendono fornire interpretazioni “interessate” della vicenda relativa alla Strage di Bologna.
La Verità non può e non deve rimanere ostaggio di un’ideologia.
Di nessuna ideologia.
La Verità è di tutti.
La Verità è dovuta, prima ancora che agli imputati, alle 85 vittime innocenti della Strage di Bologna a cui non si possono - e non si devono - offrire dei meri colpevoli di comodo.
Il Comitato invita quanti, nel mondo dell’informazione, riconoscano le ragioni dell’innocenza di Ciavardini, Mambro e Fioravanti, a non lasciare cadere nel vuoto l’appello di Giustizia che sì è voluto lanciare questa mattina.
Lo si è fatto senza interferire in alcun modo con il lavoro della magistratura.
Osservando il massimo rispetto nei confronti dei familiari delle vittime.
Non per interessi politici.
Ma per un semplice, ineliminabile motivo di Coscienza.
Il comitato intende prescindere dalle questioni puramente tecniche - indispensabili in altre sedi e, dunque, devolute alla ben più autorevole competenza degli avvocati della difesa - e per tale ragione vuole sottoporre all’attenzione del lettore gli elementi di maggiore rilevanza emersi nel corso dell’intera vicenda giudiziaria.
Sia quelli ancora passibili di valutazione da parte dei Giudici della Suprema Corte di Cassazione, sia quelli dati ormai per acquisiti nel corso dei precedenti processi.
A tal fine, il comitato vuole indurre a riflettere su alcuni tra i fatti più significativi che riguardano la Strage di Bologna, invitando il lettore ad affidarsi non al pregiudizio politico ma, al contrario, al buon senso del semplice uomo della strada.
***
Da subito, si rende necessario evidenziare come la vicenda giudiziaria della Strage di Bologna abbia palesato - sin dall’inizio – una macroscopica anomalia.
GENESI DELLA PISTA NERA
Sin dalle ore immediatamente successive all’attentato, è stata seguita solo ed esclusivamente la pista dell’estrema destra.
Quando le macerie della sala di attesa della stazione di Bologna fumavano ancora, si è assistito ad una sequenza convulsa di notizie, culminate in fretta nella “verità ufficiale” imposta ai cittadini:
a) sembrerebbe trattarsi di uno scoppio accidentale di una caldaia;
b) appare probabile che sia esploso un ordigno;
c) è sicuramente una bomba “fascista”.
Sin dal giorno dell’apertura ufficiale delle indagini - domenica 3 agosto 1980 - il colpevole venne ricercato solo ed esclusivamente in un’area ben delimitata e per nulla esaustiva del panorama terroristico dell’epoca.
Si tratta di una strategia investigativa illogica ed inspiegabile, almeno in apparenza.
Una strategia che non trova riscontro in tutte le situazioni analoghe, occorse in altri paesi civili, nelle quali le indagini relative ad una attentato di enormi proporzioni sono cominciate in assenza di idee preconcette e senza escludere nessuna pista a priori.
Le indagini penali devono iniziare, per forza di cose, a mezzo di ricerche effettuate a 360 gradi.
Sono le risultanze fattuali, emerse con il tempo, a consentire la restrizione progressiva del campo di attenzione.
Appare significativo, e già di per sé inquietante, che nella vicenda in esame ciò non sia mai accaduto.
La logica più elementare, infatti, imporrebbe che le conclusioni si debbano trarre all’esito delle osservazioni e delle riflessioni.
Lo Stato di Diritto sembrerebbe pretendere, perlomeno, che i verdetti siano emessi solo all’esito di indagini e di dibattimenti.
In questa vicenda è accaduto l’esatto contrario.
La “verità” offerta dai colpevolisti - sulla cui buona fede non nutriamo dubbi - è arrivata prima ancora che gli inquirenti iniziassero a ricercarla.
Il diritto di difesa è sembrato piegarsi alla “ragion di stato”; la logica ha ceduto il posto al preconcetto; l’obiettività è stata sacrificata alla storiografia di partito.
Già dal 1981 - ben tredici anni prima della sentenza definitiva nei confronti degli imputati maggiorenni - la lapide commemorativa delle 85 vittime innocenti esige che la strage debba essere opera del terrorismo fascista.
In questa sede la politica non deve avere alcuna importanza.
Dinnanzi alla Giustizia non rilevano le opinioni personali.
Le Garanzie non possono aumentare o diminuire a seconda dell’appartenenza ideologica dell’imputato.
Il riconoscimento del diritto di difesa, a chiunque, deve essere prerogativa irrinunciabile di uno Stato civile.
Dunque, il lettore dovrebbe chiedersi, a prescindere dalle proprie simpatie politiche, se quanto è avvenuto nella vicenda in esame sarebbe stato possibile in un paese “normale”.
***
Gli esperti del settore spiegano che le Stragi indiscriminate, soprattutto se di proporzioni devastanti, non rappresentano mai il frutto dell’azione sconsiderata di un folle sanguinario.
Le Stragi costituiscono in realtà un messaggio, un “segnale” ben preciso rivolto ad uno Stato, soprattutto quando – per le dimensioni raggiunte – somigliano più ad un atto di guerra non dichiarato che ad un episodio di terrorismo.
Lo spiegò, tra gli altri, il compianto Prefetto Parisi – a lungo direttore del SISDE – in occasione della sua audizione presso la Commissione “Stragi”.
2 agosto 1980:
85 morti.
Oltre 200 feriti.
L’ala sinistra della Stazione di Bologna completamente distrutta.
Il piazzale antistante devastato.
Gli autobus di linea utilizzati come ambulanze.
Non siamo in grado, da semplici cittadini, di azzardare ipotesi su chi abbia inviato tale “segnale” all’Italia, attraverso un attentato di tali proporzioni.
Non siamo neppure in condizioni di spiegare, in termini di ragionevole certezza, in cosa sia consistito concretamente tale “segnale”.
Non intendiamo, al contrario di taluni, propinare una lettura della vicenda in esame ad uso e consumo di partito, anteponendo le esigenze ideologiche al rigore investigativo.
E all’amore per la Verità.
Non possiamo sposare tesi che non siamo in grado di provare.
Ci limitiamo a sostenere, dunque, un fatto incontestabile e di immediata evidenza.
La chiara volontà di “chiudere” in poche ore il “caso” relativo all’episodio di terrorismo più complesso della storia italiana, individuando aprioristicamente l’ambiente politico responsabile, non sembra essere figlia soltanto di un pregiudizio ideologico.
La volontà di presentare all’opinione pubblica, da subito, un colpevole certo e per certi versi “rassicurante”, costituisce un fatto obiettivamente anomalo che impone due domande non irrilevanti.
Forse, il diretto destinatario percepì il “segnale” inviato all’Italia attraverso la Strage di Bologna?
Quanti compresero il “segnale” hanno preferito che non lo capisse invece l’opinione pubblica?
***
Solo trovando la risposta a questi due interrogativi, la vicenda storica della Strage di Bologna, in una con i numerosi depistaggi effettuati dai settori “deviati” delle istituzioni, potrebbe essere interpretata correttamente.
Una vicenda in cui, purtroppo, è stata accordata credibilità a mitomani, stupratori e malati immaginari.
Si è assistito ad un numero impressionante di depistaggi delle indagini.
Taluni hanno dato per scontato, sin dall’inizio, che il colpevole dovesse essere per forza di cose di destra.
Sullo sfondo dei telegiornali dell’agosto 1980 apparve continuamente una scritta murale che ripeteva a caratteri cubitali il nome di “terza posizione”, un gruppo giovanile della destra radicale.
L’opinione pubblica è stata indirizzata - da subito - sull’obiettivo più semplice: quello maggiormente delegittimato sotto il profilo morale e politico.
Se la parte “debole” nella vicenda di Ustica fu la compagnia aerea Itavia - a cui furono ingiustamente revocate le licenze di volo - in quella di Bologna il ruolo di vittima sacrificale venne attribuito all’estrema destra.
Non rileva, ripetiamo, il giudizio di biasimo che il lettore potrebbe riporre nei confronti del neofascismo.
E’ fatto evidente, a chi voglia riflettere senza schemi ideologici, che nella vicenda in esame l’estrema destra esercitò il ruolo “tecnico” del capro espiatorio.
Lo rivela, innanzitutto, che tutte le vittime dei depistaggi delle indagini sulla Strage di Bologna vennero selezionate nell’area neofascista.
Lo dimostra, tra l’altro, il fatto che non sono mai state vagliate tutte le piste potenziali, nazionali od internazionali, alternative a quella neofascista.
Ci riferiamo a piste concrete - emerse nell’ambito delle diverse commissioni parlamentari che si sono occupate della Strage di Bologna - e non certo a quelle evanescenti, costruite artatamente dai segmenti “deviati” delle istituzioni per assecondare i teoremi strampalati messi in circolazione già nelle ore successive all’attentato.
Piste che in gran parte erano conoscibili dalle autorità già nell’agosto del 1980 e che, senza dubbio, rivestivano sin d’allora un’obiettiva, consistente rilevanza indagativa.
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Lo dimostra – tra gli altri - il contenuto del verbale che venne redatto in occasione della riunione del CIIS, il Comitato Interministeriale per le Informazioni e la Sicurezza, occorsa in via straordinaria il 5 agosto 1980.
Verbale che, incredibilmente, venne dimenticato negli archivi del CESIS per circa 15 anni.
Verbale che fu acquisito poi dal Giudice Priore, il magistrato – di straordinarie competenze e di provata imparzialità - che a partire dal 1990 ha condotto l’istruttoria sulla Strage di Ustica, avvenuta cinque settimane prima dell’attentato di Bologna.
Nessuno, ad oggi, ha mai voluto spiegare le ragioni delle indagini a senso unico condotte sulla Strage del 2 agosto 1980.
Il Presidente Cossiga, confermando la sua rinomata schiettezza, ha ammesso che la pista nera, in quella drammatica estate del 1980, venne ritenuta l’unica da essere percorsa sulla base di mere supposizioni teoriche.
E dunque, in difetto di solidi elementi fattuali che potessero motivare, ragionevolmente, una strategia investigativa a senso unico.
***
Gli esecutori della Strage di Bologna vennero ricercati per tentativi effettuati, quasi alla cieca, nella sola area neofascista.
Il 28 agosto 1980 furono spiccati quarantasette ordini di cattura, tutti nei confronti di militanti di destra.
Quarantaquattro di questi vennero scarcerati poco dopo, quaranta furono prosciolti già in istruttoria.
Tra questi ultimi figuravano persino militanti di destra che la mattina del 2 agosto 1980 erano detenuti in carcere.
Nessuno tra gli arrestati del 28 agosto 1980 è stato condannato per la Strage di Bologna.
Non risulta che i rappresentanti delle istituzioni abbiano mai chiesto scusa a queste persone.
Neppure a chi ha patito gravi tragedie familiari in ragione di errori giudiziari gravi ed imperdonabili.
Le idee di chi fu vittima di tali errori, in questa sede, sono irrilevanti.
La Giustizia non può e non deve avere colori politici.
Si trattò, comunque, di misure ingiuste ed ingiustificate.
Non si può dimenticare.
***
Le rivelazioni di un detenuto comune, Pier Giorgio Farina, il primo in ordine a raccontare ai magistrati le sue “verità” - attribuendo la responsabilità della Strage ad alcuni militanti di destra di cui un paio addirittura detenuti in carcere, la mattina del 2 agosto 1980 - si erano rivelate delle pericolose sciocchezze.
Farina, già in precedenza, aveva tentato di assurgere al ruolo, assai redditizio per un detenuto, di supertestimone; ma nessuno gli aveva mai creduto.
I colpevolisti, invece, gli prestarono per l’occasione la massima attenzione.
A lungo, la pista indicata dal mitomane Farina venne considerata dai colpevolisti la più consistente.
Per molto tempo, Farina - che, peraltro, era stato condannato per violenza carnale - venne indicato come il supertestimone delle indagini sulla Strage di Bologna.
Del resto, anche le dichiarazioni rilasciate dal “collega” Angelo Izzo si erano dimostrate niente più che un cumulo di falsità.
Già in altri procedimenti, le deposizioni del mostro del Circeo - tornato di recente alle sue attività criminali grazie ai benefici ottenuti quale collaboratore di giustizia - si erano rivelate nient’altro che volgari calunnie.
I colpevolisti avevano ravvisato in lui un Collaboratore di Giustizia meritevole della massima considerazione.
E’ proprio attraverso le “geometriche” farneticazioni di Izzo, che Ciavardini - a pochi giorni dall’emissione dei rinvii a giudizio - venne fatto accomodare nel processo per la Strage di Bologna; accanto a Fioravanti e Mambro:
“ io deduco che Ciavardini è coinvolto perché nell’ambiente si parla di ragazzini quali esecutori materiali della strage di Bologna ed indiscutibilmente il capo-fila dei ragazzini della banda Nar-Fioravanti è Luigi Ciavardini”
I ragazzini a cui allude Izzo sarebbero stati due giovani militanti della destra radicale, Nazareno De Angelis - all’epoca delle calunnie già deceduto - e Massimilano Taddeini.
In realtà, i giovani in questione, la mattina di quel 2 agosto 1980, stavano disputando una partita di foot-ball americano, davanti a centinaia di spettatori.
Un filmato e la documentazione ufficiale della FIFA (Federazione Italiana di Foot-Ball Americano), almeno in quel caso, hanno potuto rendere Giustizia agli innocenti.
A differenza degli altri due, però, Ciavardini non venne prosciolto.
Cadute le premesse che lo sorreggevano, il curioso sillogismo formulato da Izzo rimase comunque in piedi.
Ciavardini aveva confermato l’alibi di Fioravanti e Mambro, ribadendo che quella mattina del 2 agosto 1980 tutti e tre - latitanti per reati commessi in precedenza - si trovavano a Padova, al mercato comunale di Prato della Valle.
E non solo.
Ciavardini, secondo gli inquirenti, avrebbe effettuato, il giorno precedente alla Strage, una telefonata che doveva occupare - nel fragile mosaico accusatorio che esamineremo più avanti - un tassello insostituibile.
Ciavardini - sino alla vigilia dell’emissione del provvedimento di rinvio a giudizio nei confronti di Mambro e Fioravanti - avrebbe potuto rappresentare il primo testimone della difesa.
E’ diventato, invece, il terzo imputato nel processo per la Strage di Bologna.
Nell’estate del 1980, Ciavardini aveva solo diciassette anni.
Per questo motivo è stato giudicato dal Tribunale dei Minori, separatamente da
Mambro e Fioravanti.
Sul banco degli imputati, all’esito di un estenuante gioco delle esclusioni, talvolta grottesco - come nel caso del povero Sergio Picciafuoco, un ladro risultato del tutto estraneo alla militanza politica ma che la Corte d’Assise d’Appello di Bologna aveva condannato inizialmente all’ergastolo - sono rimasti solo in tre.
Tre latitanti dell’estrema destra che, quel 2 agosto 1980, a differenza di altri non potevano né essere in carcere, né tanto meno su un campo di foot-ball americano a calciare palloni ovali.
Fioravanti e Mambro sono stati condannati con sentenza ormai passata in giudicato.
Una sentenza che ha destato sconcerto nella stragrande maggioranza dei cittadini italiani, a prescindere dalle loro opinioni politiche.
Tra le tante, merita attenzione la presa di posizione di un giornalista di straordinaria autorevolezza come Paolo Mieli il quale, sul “Corriere della Sera” del 20 novembre 2003 ha osservato:
“per delitti di tale gravità (in realtà per qualsiasi delitto) non possiamo permetterci di additare degli innocenti alla colpevolezza solo perché questo ci conferma nell'idea che ci siamo fatti del delitto stesso. Per questo non ho dubbi: quel processo è da rifare e se contro i due terroristi dei Nar non verranno fuori le prove convincenti che fin qui non sono emerse dovremmo avere, tutti, l'onestà intellettuale di chiedere a gran voce che il marchio dell'infamia (limitatamente a quel che riguarda Bologna) venga tolto dalla fronte di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. Ripeto: tutti”.
Ciavardini, invece, è ancora in attesa che la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza di “quinto” grado, si pronunci definitivamente sulla sua posizione.
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Esaurite le debite premesse, il comitato intende ora formulare le sue osservazioni riguardo ad alcuni tra gli elementi di maggiore rilevanza che hanno caratterizzato il processo per la Strage di Bologna.
I GRANDI ASSENTI: MOVENTE E MANDANTI
Dopo ventisei anni di processi, nonostante due pronunce di condanna definitive ed una ancora al vaglio della Suprema Corte di Cassazione, i colpevolisti non sono stati in grado di spiegare due concetti assolutamente fondamentali per attribuire un senso compiuto all’apocalissi del 2 agosto 1980.
Chi sono i mandanti e qual è stato il movente della Strage di Bologna?
Per anni, i colpevolisti hanno tentato di provare che Fioravanti e sodali avrebbero agito per conto di Licio Gelli, della P2 e degli ambienti reazionari, ancorché “deviati”, dello Stato.
Ambienti che, attraverso la strage di Bologna, avrebbero raggiunto l’obiettivo di colpire - come al solito - il PCI, in una città amministrata in modo moderno e civile dalla sinistra.
A sostegno di tale tesi, si è parlato addirittura del famoso convegno all’Istituto Pollio, avvenuto nel maggio del 1965, nel quale Bologna era stata indicata come una città simbolo del PCI.
Maggio 1965, ossia – per valutare meglio la ragionevolezza dell’ipotesi - quando Ciavardini si apprestava a compiere il suo terzo anno d’età.
A prescindere dalle opinioni politiche di ciascuno, assolutamente legittime, appare evidente che tesi di questo genere sono viziate da una tara ideologica abnorme e da una base storiografica faziosa; ai limiti della farsa.
Da ventisei anni, del resto, sono proprio il pregiudizio politico e gli interessi di partito - vizi congeniti della nostra società, purtroppo - a pregiudicare una seria ricerca della Verità sulla Strage di Bologna.
Terminata la stagione del compromesso storico, ed incassata la sonora sconfitta elettorale del 1979 - con una perdita superiore al 5% dei consensi nazionali - il PCI, al momento della Strage di Bologna, versava in uno stato di oggettiva difficoltà, avendo abbandonato ormai ogni speranza di divenire forza di governo.
Nell’estate del 1980, si era ormai stabilizzata una situazione politica, protrattasi sino alla caduta del muro di Berlino, che prevedeva l’esclusione del PCI dall’area di governo.
E’ ovvio, dunque, che il PCI non potesse costituire l’obiettivo di una macchinazione di siffatte dimensioni.
Non è casuale, d’altronde, il fatto che durante i governi di solidarietà nazionale, l’Italia venne risparmiata dalla “geometrica” follia degli stragisti.
Se lo stragismo fosse stato messo in atto per colpire il “compromesso storico”, gli attentati sarebbero stati simultanei allo stesso; non certo successivi.
Basterebbe un minimo di obiettività per riconoscerlo.
Il compromesso storico, nell’estate del 1980, non aveva bisogno di ricevere “spallate” per il semplice fatto che, per stessa ammissione dei suoi artefici, era naufragato definitivamente; già da diverso tempo.
Ad osservarlo, come noto, sono anche numerose ed autorevoli personalità della sinistra.
Non mancano di certo, nell’area progressista, Uomini che preferiscono, alle ricostruzioni politicamente utili, la ricerca disinteressata della Verità.
E’ il caso, tra gli altri, del diessino Giovanni Pellegrino il quale, durante il mandato parlamentare, ha presieduto con autorevolezza - per conto dell’Ulivo - la Commissione “Stragi”.
Pellegrino, nel noto libro “segreto di stato”, realizzato all’esito dei lavori della Commissione “Stragi”:
a) ha criticato gli atteggiamenti di una parte della sinistra che tende per principio a banalizzare ogni tentativo di ricostruzione storiografica della “strategia della tensione”, ponendo dogmaticamente - ed in modo troppo spesso inverosimile - il PCI quale vittima obbligata e privilegiata di qualsiasi episodio terroristico accaduto in Italia negli “anni di piombo”;
b) ha osservato come lo schema storico-interpretativo adottato da parte di certa sinistra per spiegare l’attentato del 1969 (Piazza Fontana), risulti del tutto improponibile nel caso della Strage di Bologna: l’ipotesi di un tentativo di un’involuzione autoritaria del sistema politico, attuato nel periodo in cui Sandro Pertini era Capo dello Stato, non sembra presentare neppure il requisito minimo della serietà;
c) ha evidenziato come le tensioni effettivamente esistenti in Italia nell’estate del 1980 – che, a nostro avviso, potrebbero essere eventualmente all’origine della Strage di Bologna - riguardassero meno questioni di politica interna che fattori di crisi sviluppatisi nell’area del Mediterraneo.
Tali riflessioni, fondate su dati inoppugnabili e non certo su pregiudizi ideologici, inducono ad ipotizzare, con riferimento alle tragedie dell’estate del 1980, scenari di elevata complessità.
Scenari che qualcuno, forse, ritiene tuttora “inconfessabili” all’opinione pubblica.
I colpevolisti, al contrario, hanno preferito offrire al circuito mediatico moventi più banali, inverosimili e privi di effettivo riscontro, ma di agevole divulgazione a causa della delegittimazione morale dei colpevoli designati.
Questo è uno degli aspetti più tristi della vicenda in esame.
***
Per taluni, Mambro, Fioravanti e Ciavardini sarebbero stati armati e “coperti” – con scarso successo, visti gli esiti giudiziari – da ambienti massonici e da poteri istituzionali “deviati”.
I “grandi anziani” dell’estrema destra, secondo i colpevolisti, avrebbero dovuto rappresentare l’anello di congiunzione tra i poteri occulti e i presunti esecutori della Strage di Bologna; tre giovanissimi.
Costoro hanno tentato di individuare negli omicidi Pecorelli e Mattarella, gli elementi di dimostrazione del filo nero che avrebbe unito Fioravanti ai poteri occulti.
Questa tesi è stata completamente sconfessata dagli esiti dei processi in esame.
E’ stata giudizialmente riconosciuta l’estraneità di Fioravanti sia all’omicidio Pecorelli che a quello Mattarella.
Dei pretesi rapporti tra i NAR ed i poteri occulti non v’è alcuna traccia.
Tutti gli esponenti neofascisti, appartenenti alla generazione precedente a quella di Fioravanti e sodali, sono stati assolti in via definitiva nel processo per la Strage di Bologna.
E sono stati assolti anche in tutti gli altri processi relativi alle Stragi di civili avvenute nel periodo della “strategia della tensione”.
I “grandi vecchi” dell’estrema destra sono stati riconosciuti politicamente censurabili; ma innocenti.
Si è accertato che, nel 1980, non esisteva alcun “contenitore unico” nel quale sarebbero state raggruppate tutte le anime dell’estrema destra.
La “reductio ad unum” della galassia neofascista, azzardata da taluni inquirenti, si rivelò un’ipotesi non solo semplicistica ma anche priva di fondamento.
E’ stato accertato l’esatto contrario.
I NAR, infatti, rappresentarono un momento di rottura generazionale dei nuovi fermenti di destra con le organizzazioni storiche del neofascismo i cui membri – ripetiamo - sono risultati innocenti in tutti i procedimenti relativi alle Stragi di civili precedenti a quelle del 1980.
Ribadiamo al lettore che non bisogna confondere la propria opinione sull’estrema destra con il fatto, ormai evidente, dell’estraneità di quest’ultima alla Strage di Bologna.
Giustizia e politica sono due concetti distinti.
Chi tenta di mischiarli, ancora oggi, merita tutto il nostro biasimo.
La storia tragica dei NAR, a prescindere dai giudizi morali che deve giustamente suscitare, è risultata immune dall’interferenza dei poteri occulti e dei segmenti “deviati” dello Stato.
Per tali ragioni - si faccia attenzione - le sentenze di condanna emesse nei confronti di Mambro e Fioravanti non contengono neppure una semplice menzione di ipotetici mandanti della Strage di Bologna.
I tre giovani esponenti dei NAR, di conseguenza, avrebbero compiuto la Strage di Bologna per conto loro.
Tesi questa che risulta decisamente inverosimile.
Del resto, se nella dimostrazione dei fatti offerta dai colpevolisti non figurano mandanti, il movente dell’episodio di terrorismo più grave della storia italiana rimane ancora più misterioso.
Nessuno ha saputo spiegare per quale ragione i NAR avrebbero deciso di scatenare un’autentica apocalissi all’interno della stazione ferroviaria di Bologna.
Fatto che, a nostro avviso, si dovrebbe commentare da solo.
I colpevolisti - senza attribuire alle proprie ipotesi la dignità di un movente - hanno teorizzato uno scenario grottesco ed ingiustamente offensivo per l’imparzialità della magistratura.
Secondo tale – curiosa - prospettiva, i NAR avrebbero fatto saltare in aria 85 persone indifese, tra cui bambini ed anziani, solo per scatenare contro l’estrema destra un’azione repressiva di proporzioni inaudite, tale da costringere anche gli “incerti” del loro ambiente politico a sposare la causa della lotta armata.
Si è parlato, a riguardo, di un effetto catartico che la “repressione” giudiziaria avrebbe prodotto nei confronti dell’area della destra radicale.
Appare questa una teoria grottesca perché tutti sanno, anche le persone più ingenue, che non è certo una Strage - di dimensioni inaudite e di ferocia disumana - lo strumento idoneo per convincere gli “scettici” della propria fazione ad impugnare le armi.
E’ vero l’esatto contrario.
Le immani proporzioni di un’azione stragista non potrebbero non rafforzare i convincimenti di quanti, già in precedenza, hanno sollevato dubbi sull’opportunità di impugnare le pistole.
Del resto, i presunti beneficiari della catarsi - ossia coloro che patirono mesi e talvolta anni di ingiusta carcerazione preventiva - hanno spiegato, con evidente sincerità, che la “repressione” determinata dalla Strage di Bologna ebbe nei loro confronti solo effetti tragici.
Non vi fu nessuna catarsi.
Difficile dare loro torto.
La teoria in esame, appare anche offensiva dell’imparzialità della magistratura perché presuppone, ingiustamente, la mala fede di quest’ultima.
Secondo la prospettazione in esame, l’azione repressiva avrebbe dovuto colpire nel mucchio, investendo anche coloro che erano non solo innocenti ma addirittura ignari della Strage.
In un paese che si pretende civile, gli innocenti - anche se appartenenti all’estrema destra - non dovrebbero temere alcuna azione repressiva.
I NAR praticarono quotidianamente il culto tragico delle pistole ma nella loro storia delinquenziale non v’è comunque traccia alcuna di T4, di Compound B; o di Semtex.
I NAR colpirono, seppur in modo spietato, solamente obiettivi determinati, senza mai sferrare attacchi indiscriminati contro gente inerme.
In modo del tutto speculare alle “brigate rosse”.
Attaccarono magistrati, poliziotti, avversari politici, presunti traditori; ma mai persone scelte nel “mucchio”.
Fioravanti fu arrestato mentre tentava di recuperare armi in un canale.
La Mambro venne catturata durante una rapina di autofinanziamento.
Ciavardini terminò la sua latitanza dopo aver trascorso la notte in un parco, come un barbone.
I NAR non vennero finanziati né “coperti” da nessun potere occulto.
La verità è sotto gli occhi di tutti.
Sono trascorsi ventisei anni e, per inseguire a tutti i costi le ombre dell’estrema destra, nessuno ha provato a capire sul serio perché avvenne la Strage di Bologna.
Nessuno ha voluto verificare la fondatezza di moventi proporzionati alle dimensioni apocalittiche dell’attentato.
Si deve ritenere, purtroppo, che le cose non muteranno sino a quando il reale contenuto del “segnale” inviato all’Italia - con la Strage del 2 agosto 1980 - non verrà finalmente rivelato a tutti noi, ignari cittadini.
La nostra speranza è che quanti siano a conoscenza dei segreti che tuttora avvolgono la Strage di Bologna perdano - con il tempo - il timore di svelare, insieme alla Verità, gli scenari “inconfessabili” di quell’estate maledetta.
Ad oggi non conosciamo i mandanti.
Ad oggi ignoriamo il movente.
Ci è stato detto soltanto che a tirare giù l’ala sinistra della stazione ferroviaria di Bologna, senza alcun motivo, sarebbero stati tre ragazzi di età compresa tra i 22 e i 17 anni.
Il più avveduto travestito da turista tirolese.
Il minorenne con un’evidente ferita sul volto.
La ragazza senza neppure munirsi, preventivamente, di un documento falso che le garantisse l’entrata in clandestinità.
E’ giusto continuare a far finta di nulla o sarebbe il caso di iniziare, finalmente, a porsi tutti insieme un serio problema di coscienza?
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A tal fine, giova riflettere sulla reale consistenza degli elementi indiziari indicati a sostegno della pretesa colpevolezza di Mambro, Fioravanti e Ciavardini.
L’INATTENDIBILITA’ DEL TESTIMONE SPARTI
Tutti coloro che sostengono la tesi della colpevolezza dei tre imputati sono concordi nel ritenere la testimonianza di Massimo Sparti la base che sostiene l’intero impianto accusatorio, investendo direttamente Mambro e Fioravanti, ed attirando - per l’effetto - il terzo uomo Ciavardini.
Aliis verbis, senza le deposizioni di Sparti non vi sarebbe stata nessuna sentenza di condanna; nei confronti di nessuno dei tre imputati.
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Massimo Sparti è il teste che, per dirla come gli addetti ai lavori, avrebbe ricevuto “de auditu proprio” la confessione stragiudiziale di Fioravanti.
Quest’ultimo, infatti, si sarebbe recato da lui il 4 agosto 1980, informandolo - non senza spavalderia - di essere stato insieme alla Mambro, in occasione della Strage, nel capoluogo emiliano; travestito da turista tedesco.
Sparti, più specificamente, raccontò che Fioravanti sarebbe giunto alla stazione di Bologna non in abiti comuni ma, addirittura, con vestiti tradizionali tirolesi.
Questo è un particolare fondamentale della sua deposizione che è stato ribadito - ostinatamente – durante venti anni di deposizioni.
Va ritenuta una circostanza di estrema rilevanza che non può essere svincolata, in alcun modo, dal nucleo sostanziale delle deposizioni testimoniali fornite da Sparti.
Si tratta, all’evidenza, di un dato grottesco ed inverosimile che mina in modo intrinseco, e da subito, la credibilità del testimone.
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Il clima torrido dell’agosto emiliano avrebbe reso quel travestimento non solo inadeguato ma semplicemente assurdo.
E soprattutto, l’utilizzo di abiti tirolesi - appariscenti e manifestamente anomali per una stazione ferroviaria dell’Emilia - avrebbe prodotto l’effetto inevitabile di attrarre, il massimo possibile, le attenzioni delle persone presenti alla Stazione di Bologna; dirette testimoni della Strage.
Per mimetizzarsi efficacemente nella folla della Stazione di Bologna, l’ultima cosa - in assoluto - che Fioravanti avrebbe dovuto fare, sarebbe stata quella di vestirsi in modo teatrale.
Non a caso, non c’è una persona - sopravvissuta alla Strage - che ricordi un turista tirolese all’interno della stazione.
Eppure, sarebbe il particolare più semplice da ricordare.
Ma non basta.
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E’ fatto certo che il 2 agosto 1980 Fioravanti circolasse con un documento d’identità falso, intestato a tale Flavio Caggiula.
Come noto, Caggiula è un cognome di chiara e marcata origine italiana e in particolare meridionale.
Nel documento falso, inoltre, il Signor Caggiula risultava nato e residente a Roma.
Il documento falso serve esclusivamente per essere esibito in pubblico, all’occorrenza anche alle autorità.
Altrimenti, non avrebbe senso utilizzarlo a copertura di un’operazione di siffatta delicatezza; questo è fatto condiviso da tutti.
Ebbene, è possibile che Fioravanti sia andato a compiere l’atto di terrorismo più grave della storia italiana, mascherandosi grottescamente da turista tirolese e, al contempo, tutelandosi attraverso l’utilizzo di un documento falso che indicava un cognome meridionale, attribuito ad una persona nata e residente a Roma?
Come avrebbe reagito, ad esempio, un agente di polizia che avesse identificato come cittadino romano, e dalle marcate origini meridionali, un turista tirolese nell’afa soffocante dell’estate emiliana?
Difficile ipotizzare, in assoluto, un modo più efficace per destare sospetti nelle forze dell’ordine.
Di Fioravanti non possono disconoscersi, in alcun modo, i notevoli mezzi intellettivi e la sua rinomata scaltrezza.
E’ fatto ampiamente appurato, dopo ventisei anni di processi, che Fioravanti spiccasse per astuzia, avvedutezza e capacità operativa.
Ebbene, se il quadro ricostruttivo offerto da Sparti fosse in qualche modo attendibile, Fioravanti avrebbe meritato l’ospitalità più degli ospedali psichiatrici che degli istituti di detenzione.
Appare doveroso prestare il massimo rispetto delle opinioni altrui e, soprattutto, delle pronunce giudiziarie.
Ma chiederci di credere, ancora oggi, ad una simile prospettazione dei fatti appare francamente eccessivo.
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Sparti, come osservato in precedenza, riferì che - al contrario di Fioravanti - la Mambro, presente a Bologna vestita come una delle tante persone che circolavano in Stazione, avrebbe corso il rischio di essere riconosciuta.
Come se gli abiti comuni, confondibili con tanti altri, potessero captare maggiori attenzioni di un insolito travestimento alla tirolese.
Per questo motivo, in ogni caso, si sarebbe reso necessario il reperimento di un documento di identità falso per la ragazza la quale, per precauzione, avrebbe anche provveduto a tingersi i capelli - di natura castano chiari - nel colore “melanzana”.
Fioravanti, in tale occasione, avrebbe addirittura minacciato Sparti di prendersela con il figlio Stefano, qualora non avesse provveduto a reperire il documento falso per la Mambro.
Dunque, Fioravanti – in ventisei anni di rigoroso silenzio – avrebbe ritenuto meritevole di ricevere la sua straordinaria confessione stragiudiziale, tecnicamente perfetta, soltanto ad una persona.
Un ladro vicino alla Banda della Magliana che, per motivi imperscrutabili, sarebbe divenuto il depositario di un privilegio unico, negato persino al fratello e ai “camerati” più fidati di Fioravanti.
Un delinquente incallito i cui rapporti con i NAR erano talmente confidenziali che Fioravanti avrebbe pensato bene di suggellarli, proprio in occasione della confessione, con le minacce all’incolumità del figlio Stefano.
Un malavitoso che, particolare stranamente trascurato, risultò essere legato a Tony Chichiarelli, l’autore riconosciuto di numerosi depistaggi relativi agli episodi di terrorismo più gravi del periodo della “strategia della tensione”.
Chichiarelli, ad esempio, è l’autore di un clamoroso tentativo di sviamento delle indagini sull’omicidio Pecorelli.
Chichiarelli è l’autore del falso comunicato delle “brigate rosse” che indicava il Lago della Duchessa come il luogo nel quale sarebbe stato abbandonato il corpo inerme di Aldo Moro.
Sparti - significativamente - spiegò che Chichiarelli avrebbe redatto il falso comunicato brigatista per scherzo.
Anche il lettore meno esperto, dunque, può iniziare a chiedersi com’è possibile che sia stata accordata attendibilità ad un testimone con tali credenziali.
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Lo Sparti si sarebbe attivato, attraverso le sue conoscenze, per procurare alla Mambro il documento falso.
Anche in tale circostanza, è impossibile ritenere Sparti minimamente credibile.
E ciò, tra le tante ragioni, perché Sparti si contraddice troppe volte ed in modo spudorato.
Ad esempio, nella deposizione iniziale, resa nel 1981, Sparti affermò di aver incontrato per la prima volta la Mambro proprio il 4 agosto 1980 e, allo stesso tempo, sostenne di essersi accorto egli stesso del mutamento della tinta dei capelli della ragazza, dall’originale castano chiaro al colore “melanzana”.
Ma come avrebbe potuto Sparti, in assenza di una precedente conoscenza della Mambro, rendersi conto del cambiamento di look operato dalla giovane?
E non solo.
Il 5 agosto 1980, un giorno dopo il presunto incontro con Sparti, Mambro e Fioravanti effettuarono una rapina presso l’armeria Fabbrini di Roma.
Al processo, i testimoni Simoncini, Ferretti, Basile e Cavallari descrissero la rapinatrice spiegando - chiaramente - che la donna aveva i capelli colore castano chiaro.
Che fine ha fatto l’asserita tinta color “melanzana” della Mambro che Sparti, pur non essendosi mai visto prima con la ragazza, avrebbe scoperto in occasione del presunto incontro del 4 agosto 1980 ?
La Mambro, come visto, ha conservato sempre i suoi capelli naturali, color castano chiaro, sicché i particolari indicati da Sparti, durante la deposizione, risultano non corrispondenti.
La Mambro non si tinse mai i capelli di color “melanzana”.
La colorazione della capigliatura da parte della Mambro è solo una delle invenzioni di Sparti.
Infatti, c’è un fatto ulteriore, ben più grave, che non sembra lasciare spazio a dubbi circa la mendacità del supertestimone della Strage di Bologna.
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Sparti ha raccontato di aver consegnato alla Mambro il documento falso, la mattina del 5 agosto 1980.
E’ fatto certo – consacrato nella stessa sentenza di condanna – che Sparti la sera dello stesso 5 agosto 1980 raggiunse Trento per le ferie estive.
La Mambro ha sempre sostenuto che il 5 agosto 1980 fosse sprovvista di documento falso, al punto da non poter essere registrata in albergo.
Per tali ragioni, la ragazza si sarebbe introdotta clandestinamente all’interno dell’hotel presso il quale, invece, si era potuto registrare Fioravanti, a nome del già menzionato Flavio Caggiula.
Nella sentenza di condanna, resa dalla Corte d’Assise d’Appello di Bologna il 16 maggio 1994, si legge che la Mambro avrebbe mentito su tale circostanza.
La donna, giusta detta sentenza, si sarebbe registrata in albergo esibendo un documento falso, ossia il documento che proprio la mattina del 5 agosto 1980 le avrebbe consegnato Sparti.
Nella sentenza in esame si legge espressamente:
“il 5 agosto è certo che andò all'hotel "Cicerone" di Roma assieme a Valerio F. : esibì il documento "Caggiula", mentre non esiste traccia alcuna del nome "Mambro…la Mambro si fidò ad andare in albergo (ove era necessario esibire una carta d’identità) solo la notte del 5, una volta acquisito il documento falso".
Si invita il lettore a prestare attenzione perché la “svista” appena menzionata risulta di straordinaria importanza.
Il documento Caggiula, come osservato in precedenza, era in realtà quello in possesso di Valerio Fioravanti.
Il nome indicato nel documento, non a caso, era di sesso maschile: Flavio.
La Mambro, anche per evidenti motivi anatomici, non utilizzò mai il documento Caggiula.
E’ fatto ovvio - ed assolutamente certo - che il documento indicante il nome di Flavio Caggiula venne esibito, presso l’hotel Cicerone, dal suo normale possessore, Valerio Fioravanti; e non da Francesca Mambro.
Flavio Caggiula venne registrato quale cliente della stanza numero 710 dell’Hotel Cicerone di Roma, la notte del 5 agosto 1980.
E’ indubbio, dunque, che la Mambro - in quell’occasione - non fu registrata in tale albergo.
Né con il suo nome, né sotto falsa identità.
Ciò significa - inequivocabilmente - che la Mambro, il 5 agosto 1980, non fosse in possesso di alcun documento falso.
Eppure Sparti sosteneva di averle procurato il documento falso proprio la mattina del 5 agosto 1980.
Per scrupolo, si deve valutare la possibilità che Sparti possa aver fatto confusione con le date ed aver consegnato il documento, in realtà, nei giorni immediatamente successivi al 5 agosto.
Ebbene, è impossibile che Sparti possa aver ricordato erroneamente la data in questione.
Sparti, infatti, non può essersi incontrato con la Mambro e Fioravanti nei giorni successivi al 5 agosto 1980.
Come premesso, è fatto certo - ed attestato nella stessa sentenza di condanna - che Sparti, sin dalla sera del 5 agosto 1980, si trovasse in Trentino per la villeggiatura estiva:
“è provato documentalmente - e la circostanza è oggi pacifica- che essi trascorsero la prima notte di viaggio a Trento (5/6 agosto)”
Tiriamo le somme.
Sparti non consegnò nessun documento falso alla Mambro, né il 4 né il 5 agosto 1980.
Lo dimostra, in modo inequivocabile, il fatto che la Mambro non poté registrarsi all’Hotel Cicerone, la sera del 5 agosto 1980.
Sarebbe semplicemente assurdo ipotizzare che in tale data la Mambro, già in possesso dell’agognato documento falso, non avesse utilizzato lo stesso per registrarsi assieme al compagno Flavio Caggiula (alias Valerio Fioravanti) presso l’hotel Cicerone.
Ed infatti, come visto, nessuno è mai arrivato a prospettare una simile ipotesi.
Lo dimostra, tra l’altro, l’incredibile equivoco del documento intestato a Flavio Caggiula, attribuito erroneamente alla Mambro per la sera “cruciale” del 5 agosto 1980.
La Mambro si introdusse clandestinamente nell’albergo, come è certo che abbia fatto, perché la sera di quel 5 agosto 1980 non era in possesso di un documento falso, utile per la registrazione presso la reception.
Ma – si faccia attenzione - Sparti non consegnò nessun documento falso alla Mambro, neppure nei giorni successivi al 5 agosto 1980.
Non avrebbe potuto consegnarlo perché era materialmente impossibilitato a farlo.
Proprio la sentenza di condanna ci spiega che a partire dalla sera del 5 agosto 1980 Sparti si trovava, con assoluta certezza, in villeggiatura in Trentino.
Dunque, Sparti non consegnò un documento falso alla Mambro né prima, né dopo il 5 agosto 1980.
Sparti ha mentito spudoratamente.
La nostra coscienza ci impone di continuare a ricordarlo all’opinione pubblica, nonostante il rispetto che è doveroso osservare nei confronti delle pronunce giudiziarie.
***
Il testimone chiave della Strage di Bologna collezionò un numero impressionante di errori.
Sparti non si limitò ad inciampare nella svista macroscopica relativa al colore dei capelli della Mambro e soprattutto nella questione, assolutamente decisiva, della data di consegna del documento falso.
Nelle sue prime tre deposizioni, Sparti sostenne espressamente di essersi recato presso tale Ginesi per richiedere il documento falso necessario per la Mambro.
Lo stesso Ginesi, però, negò in modo categorico la circostanza.
Preso atto dell’obiezione tenacemente opposta dal Ginesi, al quarto tentativo Sparti iniziò ad indicare in tale De Vecchi la persona a cui, in realtà, si sarebbe rivolto per procurare il predetto documento falso.
Ma perché Sparti si ostinò per tre volte ad indicare Ginesi?
Perché Sparti non fece subito il nome di De Vecchi, atteso che erano trascorsi solo pochi mesi dalla sconvolgente rivelazione ricevuta da Fioravanti e la possibilità di fare confusione tra conoscenti risultava obiettivamente inverosimile?
Perché il nome di De Vecchi comparve solo nella quarta deposizione?
Perché De Vecchi venne menzionato solo e subito dopo che Sparti venne smentito seccamente da Ginesi?
Forse, perché Sparti tentò inizialmente di non coinvolgere l’amico De Vecchi?
O perché fu costretto a cambiare versione, dopo aver preso atto della volontà di Ginesi di non prestarsi al gioco?
In ogni caso, tale mutamento di versione, investendo un particolare di eccezionale rilevanza nel quadro ricostruttivo offerto dal teste, mina ulteriormente - qualora fosse possibile - la credibilità di Sparti.
L’aggiustamento progressivo di una testimonianza depone fortemente contro la genuinità della medesima.
Non v’è conoscitore del diritto che lo possa ignorare.
Ma non basta.
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De Vecchi, arrestato proprio qualche mese dopo il rilascio delle nuove dichiarazioni di Sparti - con cui era stato abbandonato il riferimento a Ginesi - ammise di essere stato contattato all’epoca dal supertestimone.
De Vecchi sostenne che Sparti si sarebbe messo effettivamente alla ricerca di un documento falso.
Finalmente, Sparti trovò qualcuno che confermasse almeno in parte le sue dichiarazioni.
De Vecchi, tuttavia, affermò di aver visto le foto da apporre, negando espressamente che si trattasse di un documento relativo a persona di sesso femminile.
Sparti, ricordiamo, ha sempre sostenuto che il documento fosse per la Mambro.
Eppure, De Vecchi parlò con certezza di un documento per un uomo e non per una donna.
Com’è possibile conciliare le due tesi, attesa l’inequivocabilità delle leggi di natura?
***
Qualche lettore potrebbe ipotizzare che Sparti possa ricordare male quel particolare e che, dunque, il documento in realtà fosse necessario a Fioravanti.
Ciò, a ben vedere, sarebbe comunque smentito da diverse circostanze.
Una, su tutte, è che De Vecchi aveva già incontrato personalmente Fioravanti in occasione di una rapina effettuata congiuntamente, nei primi mesi del 1980.
Eppure, nella deposizione in oggetto, De Vecchi assicurò di aver visto il volto impresso nella foto ma di non aver riconosciuto nessuno di sua conoscenza.
Sparti, dunque, non riusciva a trovare qualcuno che confermasse le sue dichiarazioni.
Il documento a cui si riferiva De Vecchi, infatti, non poteva attribuirsi né alla Mambro, né per assurdo a Fioravanti, a lui già noto da tempo.
Il cerchio dei colpevolisti non riusciva a chiudersi.
De Vecchi dunque, nel corso degli anni, cambiò diverse volte versione, procedendo - a sua volta - ad uno sconcertante aggiustamento della testimonianza.
Ad esempio, ad un certo punto iniziò a sostenere di non aver mai fatto caso, in realtà, alla foto contenuta nel documento falso.
Ma allora perché, in precedenza, aveva affermato di aver visto la foto?
Perché aveva dichiarato di essere certo del sesso maschile del destinatario?
Perché aveva sostenuto di non aver notato persone di sua conoscenza?
Ma, soprattutto, perché a fronte di questa sconcertante sequenza di versioni contrastanti, i colpevolisti non hanno mai posto in discussione la credibilità del testimone?
***
Dopo l’arresto della Mambro avvenuto nel 1982, presa visione del documento falso con cui la ragazza era stata arrestata, De Vecchi escluse esplicitamente che fosse quello da lui acquisito nell’agosto del 1980.
I conti dei colpevolisti, dunque, non potevano ancora tornare.
Le dichiarazioni di De Vecchi non corroboravano - come necessario - quelle rilasciate da Sparti.
De Vecchi smentì nuovamente Sparti il quale, come ripetuto più volte, aveva attribuito il documento incriminante proprio alla Mambro.
Tuttavia, dopo un suo nuovo arresto, avvenuto nel 1986 - curiosamente, avvenuto in compagnia proprio di Sparti - De Vecchi rilasciò nuove deposizioni; ben differenti da tutte quelle precedenti.
Nel 1990, De Vecchi sostenne per la prima volta che Sparti gli avrebbe richiesto espressamente il documento per conto di Fioravanti e della fidanzata di questi.
Dopo nove anni dalla prima deposizione, dunque, De Vecchi iniziò a fare apertamente il nome di Fioravanti, indicandolo perlomeno come l’autore della richiesta del documento falso.
Anche questo è un fatto che deve sollevare fortissime perplessità circa la credibilità di De Vecchi.
Difficile ipotizzare un aggiustamento – progressivo - della testimonianza più evidente di quello posto in essere da De Vecchi.
Una progressione durata quasi dieci anni.
Ma non basta.
***
A De Vecchi venne sottoposta nuovamente la carta d’identità falsa posseduta dalla Mambro al momento dell’arresto.
Alla domanda se nell’occasione precedente - ovvero nel 1982 - l’avesse già individuata come quella consegnata effettivamente a Sparti nell’agosto nel 1980, rispose incredibilmente:
“mi sembra che io risposi di sì”.
De Vecchi venne creduto dai colpevolisti.
Ed invece, come visto, De Vecchi nel 1982 - subito dopo l’arresto della Mambro - aveva risposto di no!
De Vecchi aveva escluso espressamente che si trattasse del documento falso consegnato a Sparti nell’agosto del 1980.
Si tratta di un “errore” gravissimo che in alcun modo può essere sottovalutato.
Si può ritenere credibile un teste - così da convalidare la storia raccontata da Sparti - che cambia sistematicamente versione, arrivando a smentire persino le sue dichiarazioni precedenti?
Invertendone completamente il senso, pur di avallare la tesi della colpevolezza di Fioravanti e Mambro?
Si può accettare che il senso di una risposta venga capovolto nel suo esatto opposto, senza che nessuno obietti nulla?
Si può ammettere che un “no” si trasformi in un “sì” in modo così spudorato?
Avallando in tal modo una girandola farsesca di smentite e contraddizioni?
I colpevolisti ritengono di sì.
Eppure, giova ricordarlo, il documento che fu trovato in possesso della Mambro, il giorno del suo arresto, non era stato utilizzato presso l’hotel Cicerone, la sera del 5 agosto 1980.
Tali evidenze rendono superflue ulteriori osservazioni.
Personalità autorevoli della politica, pur dandoci ragione, ci hanno avvertito che la nostra battaglia sembra persa in partenza.
Ci è stato detto che stiamo perdendo tempo.
Che il nostro appello rimarrà lettera morta perché, inutile negarlo, il coraggio non sembra essere virtù troppo diffusa nel nostro paese; soprattutto tra le persone influenti.
La coscienza, tuttavia, ci impedisce di far finta di niente.
***
Le deposizioni di Sparti vennero smentite anche da una persona al di sopra di ogni sospetto.
Sparti affermò che a casa sua a Roma, in occasione del presunto incontro con Fioravanti del 4 agosto 1980, sarebbero stati presenti anche sua moglie, i figli e la donna di servizio.
Eppure la moglie del teste, al pari della colf, smentì seccamente questa circostanza, affermando che tutta la famiglia Sparti, il 4 agosto 1980, si trovava in villeggiatura lontano dalla capitale.
Sparti, come vedremo, rilasciate le prime deposizioni contro Mambro e Fioravanti, e riottenuta la libertà nel modo che approfondiremo più avanti, continuò imperterrito la sua carriera delinquenziale, dimostrando nuovamente il suo assai opinabile senso della legge.
Perché, dunque, si dovrebbe ritenere credibile Sparti e non, invece, sua moglie?
Che interesse poteva avere questa donna ad escludere la presenza della famiglia Sparti a Roma, quel famigerato 4 agosto 1980?
La condotta di vita della moglie, allontanatasi successivamente dal marito, dovrebbe rendere la medesima assai più attendibile di Sparti.
Tuttavia, neppure le esplicite dichiarazioni della donna, assolutamente incompatibili con quelle rilasciate dal marito, sembrano impedire ai colpevolisti di nutrire la minima perplessità sulla credibilità di Sparti.
Sparti deve essere credibile, la moglie no.
Eppure, a delinquere abitualmente era il primo; non la seconda.
Era il marito a percuotere – frequentemente – la donna; non il contrario.
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Sparti, nel corso degli anni, non si era limitato a fornire deposizioni contraddittorie ma arrivò, per un periodo, anche a ritrattare l’originaria deposizione.
Ritrattazione, però, che venne a sua volta ritrattata dallo Sparti attraverso una nuova deposizione incriminante, dando così vita ad una sconcertante alternanza di dichiarazioni di segno opposto.
La prima deposizione, quella in cui il testimone riferì “spontaneamente” della presunta richiesta di Fioravanti del documento per la Mambro, avvenne l’11 aprile 1981, esattamente due giorni dopo l’arresto dello Sparti; avvenuto per reati comuni.
Il 5 maggio 1982, all’esito di una vicenda sconcertante che si tratterà più avanti, Sparti ritrattò la prima deposizione incriminante:
“Devo per altro rettificare quanto ho precisato nelle precedenti deposizioni circa il giorno della visita di Valerio e della Mambro, infatti quanto ho deposto ho precisato la data del 4 agosto, ma poi riandando ai miei movimenti del mese di agosto e parlandone in famiglia, mi sono dovuto ricredere, non sono cioè affatto sicuro che la visita abbia avuto luogo il 4 agosto e spiego: il giorno 31 luglio ’80, ho chiuso il negozio e ho raggiunto la mia famiglia, cioè la moglie, i bambini, mia suocera Zucchelli Argene e Torchia Luciana, entrambe anche attualmente con noi conviventi, a Cura di Vetralla in provincia di Viterbo”.
Anche la ritrattazione però, come anticipato, venne presto ritrattata da Sparti che attribuì la sua condotta alle “pressioni” (sic!) ricevute dai familiari i quali lo avrebbero invitato a non collaborare con la Giustizia per timore di ritorsioni da parte dei “neri”.
La prova delle pressioni ricevute da Sparti sarebbe contenuta, curiosamente in un’istanza, rivolta del supertestimone al Tribunale di Roma, per esprimere le proprie doglianze in ordine al diritto di visita del figlio, disciplinato nella pronuncia di separazione dei coniugi.
Facciamo attenzione.
Tale istanza risale al gennaio del 1986.
Sparti venne arrestato nel dicembre 1986, mentre era in procinto di effettuare l’ennesimo colpo con il suo complice De Vecchi.
Insieme agli arnesi del mestiere, nell’albergo di Fidenza in cui i due complici furono catturati, la polizia trovò proprio una copia dell’istanza al Tribunale di Roma che, implicitamente, ha permesso di fornire una spiegazione “sensata” alla precedente ritrattazione.
Dunque, Sparti partì da Roma alla volta di Fidenza per effettuare dei furti, portandosi dietro tutto l’essenziale: gli strumenti da scasso e l’istanza al Tribunale di Roma formulata circa 12 mesi prima.
Istanza che permise, guarda caso, di trovare una giustificazione “plausibile” alla precedente ritrattazione.
Si tratta di un fatto anomalo ed assolutamente sospetto che imporrebbe, di nuovo, seri ed ulteriori interrogativi circa il ruolo effettivamente assunto da Sparti in questa vicenda.
Ed invece, il comportamento processuale assunto dallo Sparti viene giudicato dai colpevolisti assolutamente coerente e lineare.
E’ doveroso rispettare l’opinione altrui.
Ma non si può pretendere che persone dotate di capacità critica, avulsa dal pregiudizio politico, possano ritenere minimamente credibile il testimone chiave del processo per la Strage di Bologna.
***
I fatti riferiti sinora, nonostante l’oggettiva gravità, non esauriscono affatto il quadro sconvolgente della vicenda Sparti.
La singolare storia di Massimo Sparti, testimone chiave del processo per la Strage di Bologna, presenta un ulteriore aspetto, incredibilmente taciuto all’opinione pubblica, che è doveroso definire inquietante.
L’11 aprile 1981, due giorni dopo il suo arresto, Sparti rilasciò la prima deposizione incriminante.
Il 3 marzo 1982, venne dimesso dal carcere di Pisa. Gli fu diagnosticato un tumore al pancreas, tale da motivare un’aspettativa di vita di pochissimi mesi.
In realtà, nel gennaio del 1982, Sparti era già stato visitato dal dottor Ceraudo, direttore sanitario del carcere di Pisa, il quale, all’esito dell’esame endoscopico, aveva escluso la presenza di segnali tumorali.
Ceraudo accertò al contrario la necessità di un mero intervento alle emorroidi, comunque sconsigliabile per le condizioni generali di salute del paziente definite non ottimali.
Due settimane dopo l’effettuazione della diagnosi - a sorpresa - il dottor Ceraudo venne allontanato dall’incarico di direttore sanitario e sostituito dal dottor Biagini.
Quest’ultimo, poco dopo l’insediamento, informò il suo predecessore che all’esito di una tac eseguita dal professor Michelassi - solo poche ore dopo l’esito negativo dell’esame endoscopico - era stato riscontrato in Sparti un tumore pancreatico.
Il dottor Ceraudo rimase sconcertato dalla notizia perché, come noto, l’esame tac risulta essere assai meno completo ed approfondito di quello endoscopico.
Si può ritenere, sul serio, che un tumore possa essere ignorato da un esame endoscopico e, simultaneamente, venire individuato attraverso una semplice tac?
Nella cartella clinica archiviata dal dottor Biagini, si parlò stranamente di un carcinoma gastrico e non pancreatico: due forme di tumore ben differenti tra loro e dunque non suscettibili di una così grottesca confusione.
Soprattutto ad opera di un medico.
Il direttore del Carcere di Pisa scrisse una lettera al Ministro di Grazia e Giustizia per esprimere le sue doglianze nei confronti del dottor Ceraudo, definito un incompetente per non aver saputo individuare il tumore di Sparti.
Il 6 marzo del 1982, dunque, Sparti venne ricoverato d’urgenza all’ospedale San Camillo di Roma.
Dopo quasi un mese di ricovero, Sparti subì un’operazione, di natura solamente esplorativa - e dunque non chirurgica - in cui si accertò che, in realtà, l’uomo non era affetto da tumore!
Sparti era libero e sano: poté tornare comodamente alle sue attività delinquenziali.
Ciò sarebbe potuto accadere in un paese normale?
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Nel 1995, un autorevole giornalista della RAI, Ennio Remondino - notoriamente schierato a sinistra - provò a rintracciare la cartella clinica di Sparti nell’archivio del San Camillo; per tentare di far luce sulla vicenda.
Non poteva non destare interesse il fatto che il testimone chiave del processo più importante di tutta la storia italiana fosse - in realtà - un “malato immaginario”.
Remondino scoprì che un incendio divampato qualche tempo prima – stranamente - aveva bruciato una piccola parte dell’archivio dell’ospedale.
E proprio la cartella clinica di Sparti era andata in fumo.
Ennesima, curiosa coincidenza di una vicenda sconcertante.
Per oltre venti anni, il testimone chiave del processo per la Strage di Bologna è circolato liberamente, vivo e vegeto, dedicandosi con una certa costanza alle sue attività criminali.
Un’indagine penale - condotta negli anni novanta - ha consentito di accertare, definitivamente, l’inesistenza del tumore di Sparti.
Nella richiesta di archiviazione, tuttavia, si è parlato non di perizia falsificata ma di semplice diagnosi errata.
Ciò appare incomprensibile.
La stessa dinamica della vicenda, siccome dinnanzi descritta – ad esempio, l’assai minore efficacia esplorativa dell’esame tac rispetto a quello endoscopico – presenta tante e tali anomalie da far comprendere che, con ogni probabilità, vi fu una dolosa falsificazione della perizia.
La possibilità che si tratti di un errore commesso in buona fede sembrano essere le stesse che potrebbero sussistere nel caso in cui un esperto avvocato cassazionista scambiasse un atto di citazione in appello per un ricorso per decreto ingiuntivo.
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Tuttavia, le indagini che hanno attestato l’inesistenza del tumore di Sparti, incredibilmente, hanno fatto salva la buona fede del supertestimone.
E ciò perché si è sostenuto che se Sparti fosse stato a conoscenza del suo effettivo stato di salute, non avrebbe mai accettato di subire un’operazione esplorativa.
Si tratta di una motivazione inconsistente, smentita dall’evidenza stessa dei fatti.
Sparti, come noto, gravitava nell’orbita della Banda della Magliana, il sodalizio criminale che operò a Roma a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, giovandosi di relazioni assai strette con i settori “deviati” delle istituzioni.
Non a caso, tale organizzazione rivestì un ruolo fondamentale in molti tra i depistaggi più gravi della storia italiana.
Ebbene, era prassi consolidata dei detenuti che appartenevano alla Banda della Magliana quella di ottenere in modo fraudolento la scarcerazione, attraverso false perizie mediche relative proprio a tumori in realtà inesistenti.
Il caso Sparti non rappresentò un fenomeno isolato.
Lo stratagemma dei falsi tumori è stata una preoccupante “costante” adottata per sottrarsi al regime carcerario dalle persone vicine alla Banda della Magliana.
Ne beneficiò, ad esempio, Enrico De Pedis, meglio noto come “Renatino”.
Ma non fu l’unico.
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Uno degli esponenti più noti del predetto sodalizio, Maurizio Abbatino, ha confessato ai magistrati di aver ottenuto la scarcerazione grazie ad una falsa diagnosi medica che gli attribuiva, appunto, un cancro in stato ormai avanzato.
E’ fatto certo che Abbatino, per rendere l’inganno più credibile, si sottopose non ad un intervento meramente esplorativo - come quello di Sparti - ma, addirittura, ad una vera e propria operazione chirurgica in occasione della quale gli venne asportato un linfonodo.
Come risulta nell’’Ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal Giudice Istruttore Otello Lupacchini – nell’ambito del processo nei confronti della Banda della Magliana - Abbatino ha spiegato nei dettagli la vicenda del suo falso tumore:
“più facile fu trovare sanitari disposti a praticarmi una biopsia con gastropia allo stomaco, ad acquisire un vetrino di cellule tumorali, ovviamente non mie e a certificarmi un tumore. Il vetrino in questione, che proveniva dall’Ospedale Sant’Eugenio, era relativo ad un adenoma carcinoma diffuso del sistema linfatico, sicché fu necessario asportarmi anche un linfonodo cervicale, per rendere più credibile la frode. I miei linfonodi, peraltro, apparivano ingrossati, e questo perché nel Carcere di Re Bibbia, reparto infermeria, mi ero iniettato il sangue di un altro detenuto che presentava linfonodi ingrossati”.
Se altri esponenti della Banda della Magliana arrivarono a sottoporsi ad operazioni chirurgiche pur di garantire la riuscita della frode, è sin troppo ovvio che l’accettazione di un mero intervento esplorativo non possa dimostrare minimamente la buona fede di Sparti.
Le conclusioni, dunque, sono evidenti ed obbligate.
La diagnosi medica di Sparti, come da prassi per le persone vicine dalla Banda della Magliana, venne falsificata per consentire al detenuto l’illegittima scarcerazione.
Scarcerazione che avvenne alcuni mesi dopo il rilascio delle deposizioni che avrebbero portato all’incriminazione di Fioravanti.
Al pari di tutti gli altri detenuti affetti da tumori immaginari, Sparti era consapevole della grave frode ordita in suo favore.
Una frode che, per l’oggettiva complessità, implicava necessariamente l’esistenza di complicità di livello elevato.
Ciò costituisce un fatto di eccezionale gravità.
La malattia immaginaria di Sparti risulta indicativa del “livello” delle attività di inquinamento della vicenda processuale in esame.
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I colpevolisti, purtroppo, preferiscono non parlare mai della sconcertante e vergognosa vicenda medica di Sparti.
I colpevolisti si ostinano a non confrontarsi con questa storia, limitandosi a ribadire che il testimone Massimo Sparti è da ritenersi massimamente attendibile.
Sparti, si ricorda ancora, è il testimone chiave di tutto il processo per la Strage di Bologna.
Le sue dichiarazioni costituiscono la base che dovrebbe sorreggere un impianto accusatorio manifestamente fragile.
Senza le dichiarazioni di Sparti, non vi sarebbe potuta essere nessuna sentenza di condanna.
La sua deposizione testimoniale è stata ritenuta - definitivamente - attendibile in ambito giudiziario.
Tuttavia, quanto denunziato sinora obbliga ogni cittadino, a prescindere dalle proprie opinioni politiche, ad effettuare riflessioni di estrema gravità.
Le stesse che, probabilmente, stanno tormentando il lettore rimasto attento sino a questo momento.
L’etica non può essere assorbita dal formalismo giuridico.
E la vergogna non è soggetta a preclusioni processuali.
La coscienza ci obbliga di ricordarlo.
Anche a chi non vuole ascoltare il nostro appello.
IL DEPISTAGGIO DEL SISMI “DEVIATO” CONTRO I NAR
Il 13 gennaio 1981 venne posto in essere il tentativo di depistaggio più grave di tutti quelli orditi, nel corso degli anni, per impedire che si accertasse la Verità sulla Strage di Bologna.
I colpevolisti cercarono di indicarlo un elemento sintomatico, di massima rilevanza, dell’esistenza di un’azione sinergica, concertata tra P2, servizi segreti “deviati” ed estrema destra, finalizzata allo stragismo.
E’ il piatto forte delle ricostruzioni storiche proposte in danno dei NAR.
Tale fatto, dunque, dovrebbe costituire la dimostrazione che la presunta destra stragista - rappresentata in particolare dai tre imputati nel processo per l’attentato di Bologna - avrebbe goduto di protezioni, di massimo livello, sia in ambito massonico che di intelligence “deviata”.
Occorre effettuare alcune premesse.
I depistaggi orditi per indirizzare le indagini sulla Strage di Bologna sono molteplici e di sconcertante gravità.
Il comune denominatore di questi depistaggi è rappresentato dalla collocazione ideologica delle vittime.
Si è trattato tratta sempre e soltanto di capri espiatori scelti - accuratamente - negli ambienti della destra radicale italiana.
Gli stessi ambienti di destra di cui facevano parte – non a caso – Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
La base dei depistaggi, dunque, hanno sempre riguardato neofascisti italiani, collegati puntualmente - dagli autori delle false notizie - ad ambienti eversivi stranieri.
Tali fantasiosi legami internazionali servivano a rendere i depistaggi assai più complessi da verificare e, dunque, maggiormente nocivi per lo svolgimento di indagini proficue.
Da Abu Ayad a Ciolini, tutti i calunniatori utilizzati per inquinare le indagini sulla Strage di Bologna hanno ripetuto lo stesso, identico schema espositivo: l’attentato sarebbe stato eseguito da neofascisti italiani supportarti da estremisti stranieri.
Neofascisti italiani.
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Deve far riflettere, da subito, il dato obiettivo che le vittime dei depistaggi e le persone condannate per la Strage di Bologna appartengano allo stesso identico ambiente politico.
La contraddizione è tale da non meritare particolari osservazioni.
Tale fatto, tuttavia, viene trascurato furbescamente da quanti - per tentare di quadrare il proprio cerchio - preferiscono parlare, riguardo ai depistaggi, di generiche e fuorvianti “piste internazionali”.
Ciò posto, si rende ora necessario studiare attentamente la dinamica del più grave atto di depistaggio delle indagini sulla Strage di Bologna.
Tale dinamica, infatti, rivela una delle ragioni più evidenti dell’innocenza di Ciavardini, Mambro e Fioravanti.
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Il 13 gennaio 1981, sul treno Taranto-Milano, in sosta proprio alla stazione di Bologna, venne trovata dalle forze dell’ordine una valigia contenente rispettivamente:
- un fucile automatico da caccia,
- un mitra Mab con 2 caricatori,
- 8 lattine contenenti sostanze esplosive,
- 2 biglietti aerei dell’Alitalia intestati ai sig.ri Martini Dimitris e Raphael Legrand.
- copie di quotidiani francesi e tedeschi.
L’esplosivo venne immediatamente associato, dai servizi segreti “deviati”, a quello che era stato impiegato dai carnefici nella Strage di Bologna;
Secondo le informative del Sismi, i responsabili della “operazione terrore dei treni” sarebbero stati alcuni noti esponenti dell’estrema destra italiana, collegati a loro volta con ambienti eversivi francesi e tedeschi.
Il direttore del Sismi, il Generale Santovito, trasmise una nota con cui si individuava, esplicitamente, l’estremista di destra Giorgio Vale come l’acquirente dei biglietti aerei trovati nella valigia.
Si faccia attenzione, da subito, alla data di trasmissione della nota depistante: 7 febbraio 1981.
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Vale avrebbe rappresentato un elemento fondamentale dell’operazione stragista, risultando il punto di contatto tra l’area eversiva italiana e i terroristi stranieri.
Ora facciamo attenzione.
Giorgio Vale era un ex militante del movimento denominato “terza posizione”, amico intimo di Ciavardini.
Vale, insieme allo stesso Ciavardini, da tempo si era allontanato da TP per unirsi al gruppo armato dei NAR di Fioravanti e Mambro, con i quali aveva già condotto - particolare fondamentale - numerose azioni delittuose.
Vale, dunque, al momento del depistaggio era un uomo della banda di Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
Vale era da tempo un membro di spicco dei NAR.
Fioravanti, Mambro e Ciavardini, altro particolare di notevole importanza, al momento del depistaggio in oggetto non erano ancora imputati per la Strage di Bologna.
Le autorità, al momento dei coinvolgimento di Vale nel depistaggio, erano già al corrente che il giovane avesse commesso numerosi reati assieme ai tre futuri imputati per la Strage di Bologna.
Ma non basta.
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Il 7 febbraio 1981, giorno in cui venne inviata dal SISMI la nota che coinvolgeva Vale nel depistaggio, tutti i quotidiani riferirono che il giovane aveva partecipato alla sparatoria avvenuta nella notte del 5 febbraio, all’esito della quale era stato arrestato proprio Valerio Fioravanti.
I media avevano ben evidenziato l’appartenenza di Vale e Fioravanti alla stessa banda armata.
In una notizia ANSA del 6 febbraio 1981, ripresa dai principali quotidiani il giorno successivo, si legge:
“da almeno due mesi polizia e carabinieri erano convinti che Valerio Fioravanti si fosse stabilito nel veneto e servendosi come base di uno o più appartamenti nella zona di confine tra le province di Treviso, Padova e Venezia avesse organizzato assieme ad altri pericolosi neofascisti una cellula eversiva…Le indagini…avevano portato i carabinieri alla conclusione che almeno due delle armi utilizzate dai neofascisti, una pistola e una pistola mitragliatrice, erano quelle che Valerio Fioravanti e un altro neofascista, Giorgio Vale, avevano sottratto ad una pattuglia di militari dell’arma a Siena, il 13 novembre 1980”.
Dunque, basterebbe un minimo di obiettività per ammettere che chi aveva preparato la nota “depistante” contro Giorgio Vale colpì - deliberatamente - anche le persone che facevano parte della sua banda; Fioravanti su tutti.
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L’episodio del Taranto-Milano, ovviamente, produsse un’eco mediatica di eccezionale portata, facendo apparire fondata la tesi di quanti si dichiaravano convinti delle responsabilità dell’estrema destra nella Strage.
Tempo più avanti venne accertato che, in realtà, la valigia trovata sul treno Taranto-Milano era stata collocata dai vertici del Sismi “deviato” per depistare le indagini sulla Strage di Bologna.
Giorgio Vale - come venne riconosciuto in seguito - è stato in realtà la vittima più evidente del più grave atto di depistaggio delle indagini sulla Strage di Bologna.
Tale depistaggio ha portato alla condanna, ormai irrevocabile, del Generale Musumeci e del Colonnello Belmonte (due massimi dirigenti del Sismi), del “faccendiere” Pazienza e di Licio Gelli, Venerabile della Loggia P2.
Nel corso del processo si è accertato, altresì, che a fornire il placet all’operazione di depistaggio contro i militanti di destra era stato proprio il Generale Santovito, ossia lo stesso direttore del Sismi, deceduto prima della definizione del Giudizio.
I colpevolisti attribuiscono la massima rilevanza a questo depistaggio, considerandolo un fatto altamente sintomatico del rapporto collusivo esistente tra i servizi segreti “deviati” e la destra.
Il Sismi “deviato” - che, come visto, si sarebbe attivato su impulso di Gelli - secondo i colpevolisti avrebbe messo in atto il depistaggio in questione per sviare le attenzioni dai presunti autori della Strage di Bologna: la destra, ovvero Fioravanti , Mambro e Ciavardini.
Ora abbiamo tutti gli elementi utili per riflettere.
Liberiamoci dei pregiudizi politici ed iniziamo a ragionare, finalmente, in modo logico.
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Si può davvero sostenere che se la P2 e il Sismi “deviato” si fossero effettivamente posti, attraverso il predetto depistaggio, l’obiettivo di fornire una “copertura” in favore della destra - dovuta all’asserito rapporto collusivo – tra tutte le ipotizzabili “vittime” del gravissimo atto di sviamento, avrebbero scelto proprio dei noti militanti di destra?
L’elementare buon senso, al contrario, induce a ritenere che un ipotetico depistaggio dell’inchiesta sulla Strage di Bologna, realizzato in favore di esponenti della destra, si sarebbe dovuto sviluppare in direzioni diametralmente opposte ad essa.
I
l contesto storico, come noto, offriva allora molteplici e significative possibilità di sviamento: si pensi all’estrema sinistra ma soprattutto al terrorismo internazionale, di marca mediorientale.
Si può verosimilmente ritenere, dunque, che i servizi segreti e i massoni deviati avrebbero fornito una “copertura” al neofascismo scegliendo le “cavie” dell’operazione di depistaggio, tra tutti gli ambienti in astratto opzionabili, proprio nello stesso identico, mondo dell’estrema destra?
Possibile che l’ambiente politico delle vittime del depistaggio possa coincidere - perfettamente - con quello dei reali responsabili della Strage?
Si tratta di una contraddizione così palese che non meriterebbe ulteriori osservazioni.
Eppure, i colpevolisti sostengono che il predetto depistaggio operato dal Sismi “deviato” su impulso di Gelli, nonostante la dinamica dinnanzi descritta, sia stato proprio un atto di “copertura” in favore della destra.
Il nostro senso logico, al contrario, ci porta all’inevitabile conclusione di ritenere tale depistaggio come un artificioso tentativo - il più evidente possibile - ordito per rafforzare le attenzioni degli inquirenti bolognesi sul falso obiettivo puntato sin dall’inizio delle indagini: l’estrema destra.
***
L’estrema destra, possa piacere o meno, non venne “coperta” attraverso il predetto depistaggio ma - com’è ormai dimostrato - utilizzata quale vittima sacrificale.
Del resto, la calunnia ai danni di alcuni militanti della destra radicale, costituitisi parte civile, è stata accertata in Giudizio ed ha comportato la condanna dei vertici stessi del Sismi “deviato”.
Possibile che si continui ad ignorare un dato obiettivo di siffatta rilevanza?
E’ ammissibile che il pregiudizio politico possa prevalere sulle ragioni dell’evidenza?
Ma non basta.
***
Ragioniamo per assurdo, aderendo alla tesi asserita dai colpevolisti per cui Loggia P2 e Sismi “deviato” avrebbero fornito “copertura” alla destra, depistando l’inchiesta sulla Strage di Bologna proprio in danno della medesima.
In tale curiosa prospettiva, la “copertura” ipotizzata avrebbe dovuto prefiggersi l’obiettivo di fornire un aiuto non all’intera galassia della destra ma, piuttosto, ai soli presunti esecutori della Strage di Bologna: Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
E dunque, proviamo ad ammettere per ipotesi che P2 e Sismi “deviato” avrebbero tentato di fornire protezione ai tre presunti esecutori della Strage di Bologna, andando ad individuare le “vittime” del depistaggio - paradossalmente - nel loro stesso ambiente di appartenenza.
La scelta delle “cavie” necessarie per ordire lo sviamento in esame sarebbe dovuta ricadere, a rigor di logica, perlomeno il più lontano possibile da Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
Come noto, in quei tempi la destra, anche nelle sue appendici estremistiche, offriva in ambito nazionale, attraverso un discreto numero di sigle, un campionario di potenziali “vittime” da depistaggio relativamente vasto.
Perché, dunque, la loggia P2 e il Sismi “deviato” avrebbero dovuto individuare la “cavia” del depistaggio, tra le tante possibili, proprio in Giorgio Vale, amico e sodale delle persone che avrebbero dovuto essere “coperte”?
Si può sostenere, sul serio, che la P2 e il Sismi “deviato” possano aver fornito la copertura ai NAR dirottando le indagini verso un militante dei NAR medesimi?
I vertici del SISMI “deviato” perseguivano finalità indubbiamente criminali ma non erano certo dei dilettanti.
Vale, come detto, sin dal 1980 era un elemento di spicco della banda di Fioravanti.
Tutti, inoltre, conoscevano Vale come un grande amico di Ciavardini.
Vale era un membro dei NAR.
Al momento del depistaggio, aveva già partecipato ad alcune azioni armate insieme ai tre futuri imputati per la Strage di Bologna.
I giornali parlavano dei rapporti di Vale con i tre imputati sin dall’ottobre del 1980.
La magistratura, al momento del depistaggio, stava già indagando su Vale, Fioravanti, Mambro e Ciavardini quali esecutori dell’omicidio di un agente di polizia, Franco Evangelista, avvenuto nel maggio 1980 nelle vicinanze del Liceo Giulio Cesare di Roma.
Vale, Fioravanti, Mambro e Ciavardini erano la stessa “cosa”.
Come si può sostenere, senza scadere nel ridicolo, che i depistatori avrebbero coperto Mambro, Fioravanti e Ciavardini inducendo gli inquirenti bolognesi ad indagare su Vale?
Ma non basta.
***
Come anticipato, nelle stesse ore in cui il Sismi trasmise ai magistrati che indagavano sulla Strage di Bologna la nota con cui Vale veniva indicato quale uomo-chiave della vicenda del Taranto-Milano, Fioravanti era stato appena arrestato nei pressi di Padova.
Facciamo attenzione.
Le agenzie di stampa e i maggiori quotidiani italiani, proprio in quelle ore, segnalavano Vale come uno dei complici di Fioravanti.
Nel breve arco di poche ore i magistrati di Bologna ricevettero a vari livelli queste informazioni:
a) il ritrovamento della valigia con l’esplosivo sul Taranto-Milano sarebbe da porre in stretta relazione con la Strage di Bologna;
b) Vale sarebbe la pedina fondamentale dell’operazione stragista che vede protagonista l’estrema destra italiana la quale si avvale all’occorrenza di legami con aree eversive straniere;
c) Vale è un complice di Fioravanti e appartiene alla sua stessa banda terroristica, al pari di Mambro e di Ciavardini.
Le conseguenza logiche di questa sequenza di notizie sono obbligate.
Costringere gli inquirenti della Strage di Bologna, attraverso il depistaggio in questione, ad “accendere i riflettori” proprio su Vale, ha prodotto l’effetto inevitabile di dirottare l’attenzione della magistratura proprio sul gruppo armato nel quale il ragazzo faceva parte.
I NAR, la banda di Fioravanti, Mambro e, fino a poco tempo prima, Ciavardini.
***
V’è un ulteriore elemento che non lascia spazio a dubbi.
Nella successiva nota del 24 febbraio 1981, i vertici del SISMI “deviato” si preoccuparono di ricordare esplicitamente alla magistratura bolognese che Vale aveva partecipato insieme a Fioravanti alla sparatoria di Padova.
Vale, Fioravanti, Mambro e Ciavardini appartenevano ad un’unica banda armata: i depistatori si preoccuparono di ribadirlo esplicitamente agli inquirenti.
Tanto per essere sicuri che il particolare, di straordinaria rilevanza, potesse sfuggire a qualcuno.
Il primo dei quattro è stato vittima del depistaggio e gli altri tre ne sarebbero stati i beneficiari?
Le leggi tolemaiche - perché tali dovrebbero essere definite - imposte alla vicenda in esame pretenderebbero, anche in tal caso, una risposta affermativa.
La coscienza ci impone un responso di segno opposto.
Eppur si muove.
***
E’ impossibile, in altre parole, arrivare a credere che questo depistaggio sia stato ordito per sviare l’attenzione dei magistrati da Fioravanti e dai NAR.
I riflettori puntati su Vale, inevitabilmente, hanno illuminato - e a fondo - anche i volti dei tre futuri imputati per la Strage di Bologna.
La fisiologia di tale depistaggio, la collocazione ideologica delle “vittime” prescelte, la scelta specifica del gruppo da incriminare, i prevedibili effetti che si sarebbero andati a ripercuotere in modo diretto ed esplicito sulla banda armata cui Vale apparteneva, i NAR, costituiscono l’ennesimo elemento in favore dell’innocenza di Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
Forse bisognerebbe avere il coraggio di riconoscerlo.
Lasciando da parte la politica.
In nome della Verità.
***
L’episodio del depistaggio, ordito da P2 e Sismi contro i NAR sul treno Taranto-Milano, costituisce un fatto di eccezionale gravità.
Il Comitato ritiene che tale crimine avrebbe dovuto costituire l’oggetto di inchieste maggiormente approfondite perché è lecito considerarlo uno dei punti cruciali, forse il più significativo, di tutta la vicenda giudiziaria della Strage di Bologna.
Ciò non è avvenuto.
La risposta alle tante domande rimaste ancora insolute, probabilmente, aiuterebbe a sciogliere molte ombre che avvolgono, ancora oggi, la vicenda giudiziaria della Strage di Bologna.
Eppure questa pista, lunga come un’autostrada, non è stata percorsa da nessuno.
Il comitato ritiene questo fatto inspiegabile.
Purtroppo, la volontà di taluni di imporre agli avversari politici la propria ricostruzione storica degli anni di piombo ha prevalso sull’esigenza, assai più nobile, di ricercare seriamente la Verità, senza tesi precostituite od interpretazioni di comodo.
La Verità non appartiene a nessuno.
La Verità è di tutti.
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Un ultimo particolare di questo depistaggio avrebbe meritato un adeguato approfondimento.
Come si è avuto modo di spiegare, Sparti raccontò con insistenza la storia quanto meno improbabile di Fioravanti travestito da turista tirolese, alla stazione di Bologna, la mattina del 2 agosto 1980.
Il fatto, come visto, è stato ritenuto da molti come inverosimile, grottesco e fortemente indicativo dell’inattendibilità del testimone, affetto - come visto - da “malattia immaginaria”.
Gli osservatori più attenti, tuttavia, si sono chiesti se la “curiosa” circostanza narrata con insistenza da Sparti potesse trovare, invece, qualche spiegazione razionale.
Taluni si sono domandati se l’ostinazione del “malato immaginario” nel riferire la storia del turista tirolese obbedisse - almeno inizialmente - a precise indicazioni ricevute da terzi rimasti sconosciuti.
Ebbene, un particolare della vergognosa vicenda del Taranto-Milano viene spesso dimenticato.
Il Sismi “deviato”, come riferito, aveva indicato Vale come l’elemento di contatto tra l’estrema destra italiana e gli ambienti eversivi francesi e tedeschi.
Ai magistrati di Bologna - prestiamo attenzione - i depistatori avevano comunicato l’esistenza di un progetto stragista che avrebbe legato Vale ad alcuni pericolosi terroristi alto-atesini.
Ossia, per meglio intenderci, sud-tirolesi.
L’informativa in questione risale al febbraio 1981.
Chi erano, dunque, i misteriosi terroristi scesi dal Tirolo scesi in Italia per compiere attentati?
Solo due mesi dopo, Sparti raccontò ai magistrati la storia di Fioravanti travestito - curiosamente - proprio da turista tirolese.
E’ lecito chiedersi, dunque, se possa trattarsi solamente della solita, curiosa coincidenza di quest’incredibile vicenda giudiziaria.
O se invece c’è dell’altro?
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Tale documento impone, necessariamente, un’estrema sinteticità.
Non è possibile in questa sede sottoporre all’attenzione del lettore tutti i molteplici aspetti, pur di indubbia importanza, afferenti la complessa vicenda giudiziaria della Strage di Bologna.
Tali oneri verranno assolti, nel prossimo settembre, con la pubblicazione del libro ufficiale del Comitato: “Bologna, un caso di coscienza”.
Affermata e motivata la sua profonda convinzione in ordine all’assoluta innocenza di Mambro e Fioravanti, il Comitato intende ora soffermarsi su alcuni fatti, di estrema rilevanza probatoria, che riguardano segnatamente la posizione di Ciavardini, l’imputato che è ancora in attesa di una sentenza definitiva.
L’IMPUTATO DIMENTICATO
Ciavardini è l’imputato meno conosciuto del processo per la Strage di Bologna.
All’epoca dei fatti aveva solo diciassettenne anni ed è stato giudicato - separatamente - dalla sezione minorile del Tribunale di Bologna.
Un tribunale minorile che, dunque, si è dovuto occupare dell’atto di terrorismo più grave dell’intera storia italiana.
Ciavardini, come visto, venne introdotto nella vicenda giudiziaria in esame per effetto delle curiose deduzioni logiche offerte alla magistratura bolognese dal “mostro” del Circeo.
Cadute le premesse che avrebbero dovuto sorreggere il sillogismo di Izzo, Ciavardini non venne prosciolto.
Massimiliano Taddeini e Nazareno De Angelis risultarono completamente estranei alla Strage di Bologna.
Ciavardini, coinvolto inizialmente nelle indagini solo perché ritenuto il “capo” dei due ragazzini, divenne - comunque - l’ultimo imputato nel processo per la Strage di Bologna.
Eppure, nel 1991 era stato proprio il Pubblico Ministero, Romano Ricciotti, a chiedere l’archiviazione della posizione di Ciavardini.
La richiesta - fatto abbastanza insolito - non venne accolta dal GIP.
Venne disposto un supplemento di indagini - che furono assegnate ad un altro PM, più giovane del veterano Ricciotti – nel corso delle quali emersero elementi rivelatisi poi irrilevanti nella fase dibattimentale.
Fu ipotizzata, sostanzialmente, l’esistenza di un legame tra Ciavardini ed il già citato Picciafuoco, un imputato che è stato assolto - in via definitiva - dall’accusa di aver partecipato alla Strage di Bologna.
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Picciafuoco è risultato estraneo non solo all’attentato ma, anche, a qualsiasi forma di militanza politica.
Picciafuoco, all’epoca della Strage, era ricercato per furti di poco conto.
Presente effettivamente alla stazione di Bologna, la mattina del 2 agosto 1980, rimase addirittura ferito e si recò spontaneamente presso il pronto soccorso!
Picciafuoco è stato assolto in via definitiva.
Non è emerso alcun legame tra Picciafuoco e gli altri imputati.
Al momento del rinvio a giudizio di Ciavardini, si era sostenuta l’esistenza di una fotografia che avrebbe ritratto il giovane imputato e Picciafuoco insieme, ad una manifestazione politica.
La foto non è mai stata prodotta in giudizio.
Per il semplice fatto che tale fotografia non è mai esistita.
E’ fatto certo, ed ormai pacifico, che Ciavardini non conosceva Picciafuoco.
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Dunque, l’impianto accusatorio - nei confronti di Ciavardini - rimane lo stesso che aveva indotto il PM Ricciotti a richiedere direttamente l’archiviazione del procedimento.
Ci chiediamo, quindi, come sia possibile che su Ciavardini - i cui elementi a carico non sarebbero stati sufficienti neppure per giustificare un mero rinvio a giudizio - gravi ora, seppur in modo provvisorio, una sentenza di condanna a trenta anni di reclusione per concorso in Strage?
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Il processo nei confronti di Ciavardini ebbe inizio quando la sentenza di condanna, nei confronti di Mambro e Fioravanti, era già passata in giudicato.
Ciò ha recato un gravissimo nocumento a Ciavardini.
Come noto, infatti, i tre ex militanti dei NAR hanno sostenuto di avere lo stesso alibi per la mattina del 2 agosto 1980.
Il giorno della Strage di Bologna, si trovavano a Padova, al mercato comunale di Prato della Valle.
Nel processo nei confronti dei maggiorenni, l’alibi è stato ritenuto falso.
Dunque, se nel processo Ciavardini fosse stata dimostrata la veridicità dello stesso alibi disconosciuto nella sentenza di condanna di Mambro e Fioravanti, si sarebbe determinato un evidente contrasto di giudicati.
Contrasto che, come ovvio, avrebbe potuto giustificare eventualmente la revisione del processo nei confronti dei maggiorenni.
Risulterebbe impossibile, in effetti, la compatibilità logica delle due ricostruzioni dei fatti.
Secondo la prima, la mattina del 2 agosto 1980 Fioravanti e Mambro sarebbero stati a Bologna; giusta l’altra a Padova.
Ciavardini, dunque, iniziò il giudizio penalizzato da un gravissimo ed innegabile handicap: l’asserita falsità del suo alibi imposta - di fatto - da un giudizio precedente.
Ciavardini, in altre parole, si è dovuto difendere senza poter dimostrare - realmente - di aver detto il vero; sostenendo di essere stato a Padova insieme a Fioravanti e Mambro la mattina dell’attentato.
Dunque, il peso del giudicato, maturato - nei modi dinnanzi esaminati - nel processo nei confronti dei maggiorenni, ha lasciato spazio ad un’alternativa logica desolante:
a) Ciavardini sarebbe solamente connivente: avrebbe confermato l’alibi dei maggiorenni solo per aiutare gli altri membri della banda di cui aveva fatto parte;
b) Ciavardini avrebbe concorso egli stesso nella Strage; si sarebbe inventato l’alibi menzognero per coprire le sue responsabilità.
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Ciavardini venne assolto, in primo grado, dal Tribunale dei Minori di Bologna che ritenne fondata la prima ipotesi.
La semplice connivenza, nel caso in esame, non è perseguibile penalmente.
Nonostante tali motivazioni, l’assoluzione di Ciavardini produsse l’effetto – inevitabile – di accrescere ulteriormente, nell’opinione pubblica, i dubbi sulla colpevolezza di Mambro e Fioravanti.
La sezione minorile della Corte d’Appello di Bologna ha ribaltato il verdetto, ritenendo Ciavardini uno dei autori della Strage di Bologna.
Tuttavia, la Suprema Corte di Cassazione ha annullato tale sentenza, disponendo il rinvio alla Corte d’Appello di Bologna per un nuovo grado di Giudizio.
Nella pronuncia della Cassazione, si legge:
“in definitiva, l’impugnata sentenza presenta evidenti difetti argomentativi in ordine al punto – essenziale nella relativa impostazione motivazionale, ai fini delle conclusioni assunte – riguardante i compiti attribuiti al Ciavardini in riferimento, oltre che alla attività preparatoria (rimasta, per quanto lo riguarda, incerta e indefinita) alla fase propriamente esecutiva dell’attentato, nella quale è stato materialmente inserito attraverso un iter logico viziato”.
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Nel dicembre 2004, la sezione minorile della Corte d’Appello di Bologna - all’esito di un processo durato circa dieci giorni - ha ritenuto nuovamente colpevole Ciavardini.
Ricordiamo che, come noto, la colpevolezza di Mambro e Fioravanti è stata ritenuta provata sulla base di un complesso indiziario fondato sostanzialmente su quattro elementi:
a) assenza di alibi;
b) testimonianza di Sparti;
c) telefonata di Ciavardini;
d) omicidio Mangiameli.
Della vicenda Sparti abbiamo parlato a lungo.
Anche la questione dell’omicidio Mangiameli meriterebbe un’opportuna trattazione perché, anche in tal caso, risultano evidenti le ragioni dell’innocenza degli imputati.
Tuttavia, né la testimonianza Sparti né l’omicidio Mangiameli rientrano nell’impianto accusatorio posto a fondamento della pretesa colpevolezza di Ciavardini.
Sparti non parlò mai di Ciavardini; anzi sostenne di non conoscerlo neppure.
Non esiste, dunque, un solo testimone, vero o falso che sia, il quale asserisca la presenza di Ciavardini alla stazione ferroviaria di Bologna, la mattina del 2 agosto 1980.
Inoltre, l’omicidio Mangiameli, da parte di Mambro e Fioravanti, avvenne quando Ciavardini era stato già allontanato dai NAR.
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Nei confronti di Ciavardini - per quanto incredibile possa apparire al lettore meno informato - gravano solo due dei quattro elementi ricavati dal complesso indiziario generale:
a) l’alibi ritenuto falso;
b) la telefonata.
Dell’alibi abbiamo già riferito, evidenziando come a Ciavardini sia stata preclusa – di fatto – la possibilità di dimostrarne la genuinità.
Resta la telefonata.
LA TELEFONATA FANTASMA
I colpevolisti attribuiscono valenza indiziaria ad una telefonata che Ciavardini si sarebbe curato di effettuare, l’1 agosto 1980, per informare la sua fidanzata ed alcuni amici, in vacanza nella cittadina laziale di Ladispoli, della necessità di posticipare il viaggio che avrebbe dovuto condurre questi ultimi a Venezia, proprio il 2 agosto 1980.
Nello specifico, i colpevolisti ritengono che tale circostanza, pur non costituendo prova della partecipazione di Ciavardini alla Strage, dimostrerebbe perlomeno che il minore fosse già a conoscenza di quanto sarebbe accaduto il giorno dopo a Bologna.
Tale telefonata, dunque, rappresenterebbe un elemento sintomatico della conoscenza anticipata, da parte di Ciavardini, dell’imminente Strage.
Conoscenza. Che - si presti attenzione - non significa partecipazione.
Occorre verificare, in ogni caso, se la telefonata che contribuirebbe all’incriminazione di Ciavardini, sia realmente avvenuta.
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Nell’agosto del 1980, Ciavardini era fidanzato con Elena Venditti, una militante della destra radicale conosciuta durante la precedente militanza nel movimento di TP.
L’1 agosto 1980, la Venditti si trovava a Ladispoli, a casa di Cecilia Loreti, fidanzata a sua volta di Marco Pizzari, amico di Ciavardini.
I tre ragazzi erano in procinto di partire per Venezia, dove si sarebbero dovuti incontrare con Ciavardini il quale, divenuto da tempo latitante, aveva trovato rifugio proprio in Veneto.
Secondo i colpevolisti, l’1 agosto Ciavardini avrebbe telefonato a Roma, a casa della famiglia Pizzari, pregando il padre del suo amico di avvertire i ragazzi in vacanza a Ladispoli di rinviare la partenza perché il giorno seguente vi sarebbero stati dei problemi.
Il padre di Pizzari, a sua volta, avrebbe chiamato per le vie brevi lo zio della Loreti, presso la sua abitazione personale di Ladispoli - che al contrario di quella della nipote sarebbe stata dotata di apparecchio telefonico - pregandolo di uscire di casa e di informare Cecilia e gli altri ragazzi dell’improvviso cambio di programma.
Lo zio della Loreti, da ultimo, avrebbe comunicato la notizia del rinvio della partenza per il Veneto alla nipote la quale ne avrebbe parlato immediatamente alla Venditti.
E dunque, la telefonata che dovrebbe incriminare l’ultimo imputato della Strage di Bologna, secondo i colpevolisti avrebbe compiuto il seguente iter:
• Ciavardini (Veneto);
• Padre di Pizzari (Roma);
• Zio della Loreti (Ladispoli);
• Cecilia Loreti; (Ladispoli);
• Elena Venditti (Ladispoli).
Almeno cinque persone, dunque, sarebbero state poste in grado – dopo la tragedia del 2 agosto 1980 – di collegare i problemi preannunciati telefonicamente da Ciavardini alla Strage di Bologna.
Due di queste, in particolare, sarebbero state persone di mezza età, completamente estranee a qualsiasi forma di militanza politica e, dunque, non suscettibili di alcuna forma di complicità.
Ancora una volta, le tesi dei colpevolisti sembrano scontrarsi - sin dal principio - con il più elementare buon senso.
E non solo.
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Confrontiamo la tesi formulata dai colpevolisti con le deposizioni rilasciate nel corso degli anni dai diretti interessati.
Un fatto è certo per tutti: la Venditti, la Loreti e Pizzari raggiunsero Venezia il 4 agosto 1980 e lì incontrarono Ciavardini.
Cecilia Loreti, durante l’interrogatorio avvenuto la sera del 23 settembre 1980 dichiarò di aver scoperto solo a Venezia che il viaggio fosse finalizzato, in realtà, ad incontrare il latitante Ciavardini.
Pizzari, sempre il 23 settembre 1980, fornì la stessa dichiarazione della fidanzata.
La Venditti, secondo la Loreti, avrebbe chiesto ai due amici di accompagnarla in Veneto sostenendo che una sua cara amica, lì residente, aveva appena partorito da poco una bambina.
La Loreti, solo il 23 dicembre 1980, riferì per la prima volta della presunta telefonata con cui Ciavardini avrebbe comunicato il rinvio della partenza.
La presenza di Ciavardini a Venezia, dunque, non avrebbe più rappresentato una sorpresa per Pizzari e la Loreti.
Ma perché la Loreti attese il 23 dicembre 1980 per riferire una circostanza, di siffatte implicazioni e gravità?
Perché la Loreti non raccontò della telefonata di Ciavardini quando era già stata interrogata sulla stessa vicenda, esattamente tre mesi prima?
Il 5 maggio 1982 la Loreti confermò la seconda versione, spiegando anche che era stato il padre di Pizzari, a Roma, a parlare direttamente con Ciavardini.
Fa il suo esordio, così, la tesi dell’iter comunicativo siccome sostenuta dai colpevolisti: padre di Pizzari-Zio della Loreti-Cecilia Loreti-Elena Venditti.
E’ questa la deposizione che dovrebbe incriminare Ciavardini.
Nel 1987, invece, la Loreti, cambiò sorprendentemente versione dichiarando che sarebbe stata direttamente la Venditti a ricevere direttamente la presunta telefonata di Ciavardini.
Il lungo iter, dinnanzi descritto, svanì dunque nel nulla.
Ma perché la Loreti aveva riferito in precedenza che la telefonata di Ciavardini sarebbe stata effettuata al padre di Pizzari?
Perché la Loreti aveva riferito in precedenza che la telefonata di Ciavardini fosse stata riferita verbalmente alla Venditti, e solo all’esito di una serie di telefonate incrociate, effettuate rispettivamente dal padre di Pizzari e dallo zio della Loreti stessa?
Nel 1999, la Loreti ribadì la versione fornita nel 1987, dichiarando di nuovo che Ciavardini avrebbe avvertito direttamente la Venditti e smentendo - per la seconda volta - la tesi dell’iter: a) Ciavardini; b) padre di Pizzari; c) zio della Loreti; d) Loreti; e) Venditti, dalla stessa introdotta nel 1982.
Pertanto, esistono perlomeno tre versioni differenti, non compatibili tra loro, del fatto raccontato dalla Loreti.
Eppure, i colpevolisti ritengono la Loreti testimone coerente e lineare.
La logica, oltre che la geometria, ci suggerisce in realtà l’esatto contrario, suscitando le nostre forti perplessità circa l’attendibilità di una testimone che nel corso degli anni ha cambiato sistematicamente versione.
Aggiungendo od escludendo - in modo sorprendente - alcune “stazioni” fondamentali di questo incredibile iter comunicativo.
Smentendo, nelle ultime dichiarazioni formulate, la precedente deposizione; quella accreditata dai colpevolisti come realmente attendibile.
Ma non basta.
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Il padre di Pizzari venne chiamato a deporre solamente nel 1997, a quindici anni di distanza dalle prime dichiarazioni della Loreti sulla presunta telefonata che lui - di persona - avrebbe ricevuto da Ciavardini.
E’ l’ennesimo fatto inspiegabile di questa vicenda.
E’ lecito chiedersi perché si sia aspettato quindici anni per ascoltare la versione dei fatti del padre di Pizzari, l’asserito destinatario della presunta telefonata di Ciavardini.
Si deve premettere che il padre di Pizzari non poteva avere alcun tipo di simpatia per l’estrema destra.
Suo figlio, infatti, diversi anni prima era stato ucciso proprio dal gruppo di Fioravanti che lo riteneva responsabile dell’arresto di un noto militante di destra dell’ambiente romano, di cui abbiamo parlato già in precedenza: Nazareno De Angelis.
Il 16 aprile 1997, gli inquirenti chiesero al padre di Pizzari se ricordasse il colloquio telefonico che avrebbe avuto con Ciavardini l’1 agosto 1980.
La risposta che fornì il padre di Pizzari non sembra lasciare scampo ad equivoci:
“assolutamente no”.
Il cerchio dei colpevolisti, ancora una volta, non si chiude.
Il padre di Pizzari sarebbe stato il destinatario diretto della telefonata di Ciavardini.
Il padre di Pizzari conosceva perfettamente, da tanti anni, Ciavardini.
Il padre di Pizzari, distrutto dal dolore provocato dallo morte del figlio, aveva evidenti e seri motivi di risentimento nei confronti di Ciavardini.
Il padre di Pizzari, tuttavia, negò in modo assoluto che la telefonata incriminata fosse mai avvenuta.
Difficile ipotizzare un testimone più attendibile del padre di Pizzari.
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Nella deposizione fornita dalla Loreti nel 1982, si precisò che il padre di Pizzari avrebbe fatto pervenire ai ragazzi il messaggio di Ciavardini attraverso lo Zio della Loreti il quale, a differenza della nipote, sarebbe stato dotato - anche nell’appartamento estivo di Ladispoli - di un proprio apparecchio telefonico.
Sempre nel 1997, a quindici anni dalla deposizione della Loreti, è stato acquisito il numero telefonico segnato dal padre di Pizzari nell’agenda del 1980 ed utilizzato per comunicare con il figlio in vacanza a Ladispoli.
Il numero dell’agenda è **9912858.
La Questura di Roma, al contrario, ha accertato che il numero intestato allo zio della Loreti, presso l’abitazione di Ladispoli, sin dal 1980 è invece **9910197.
La tesi dei colpevolisti, dunque, viene smentita anche dall’aritmetica.
Come è possibile, infatti, che lo zio della Loreti abbia ricevuto la telefonata del padre di Pizzari se quest’ultimo, in realtà, non poteva conoscere il numero telefonico del primo?
La madre di Pizzari, del resto, prima nel 1997 e poi nel 1999, dichiarò espressamente che nell’estate del 1980 era solita comunicare con il figlio in vacanza a Ladispoli, chiamando direttamente a casa di Cecilia, senza dover passare per lo zio della ragazza.
La rubrica dell’agenda di casa Pizzari, in effetti, non contiene il numero di telefono dello zio della Loreti a Ladispoli.
Anche in questo caso, le tesi dei colpevolisti non trovano riscontro.
Lo stesso zio della Loreti, del resto, nel 1990, dichiarò di non ricordare affatto la presunta telefonata del padre di Pizzari che, a sua volta, avrebbe riferito l’asserito colloquio occorso con Ciavardini.
Anche lo zio della Loreti, dunque, ha smentito la versione sostenuta per alcuni anni dalla nipote.
E’ davvero certo che la telefonata in esame vi sia stata?
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L’iter comunicativo sostenuto dai colpevolisti, dunque, sembra essere smentito non solo dai documenti - come l’agenda di casa Pizzari - acquisiti in Giudizio ma, anche, dalle dichiarazioni di tutti i diretti interessati.
Anche quelli che, nutrendo un evidente sentimento di ostilità nei confronti degli imputati, devono essere ritenuti al di sopra di ogni sospetto.
Eppure, nonostante tali evidenze, i colpevolisti ritengono fatto provato la telefonata di Ciavardini con cui l’1 agosto 1980 avrebbe segnalato - non si sa come e tramite chi - a ragazza ed amici l’esistenza di problemi per l’incontro del giorno successivo a Venezia.
I colpevolisti, attraverso questa telefonata, pur non riuscendo a dimostrare la colpevolezza di Ciavardini, pretendono comunque di collegare quest’ultimo alla Strage di Bologna.
Non sarebbe prova della partecipazione della Strage di Ciavardini ma, perlomeno, di una sua conoscenza anticipata.
Ammettere l’esistenza di questo tassello, dunque, significa avallare il fragile mosaico accusatorio nei confronti di Ciavardini.
L’evidenza dei fatti, però, ci induce ad escludere che Ciavardini abbia mai avuto tale colloquio telefonico.
Ma non è tutto.
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Per ragioni inspiegabili, è passata sotto assoluto silenzio l’intervista rilasciata il 12 settembre 2002 da Elena Venditti a Gianluca Semprini, trascritta a pag.249 del libro più volte menzionato.
La Venditti, che secondo l’ultima versione fornita dalla Loreti in Giudizio avrebbe avuto un colloquio telefonico diretto con Ciavardini, l’1 agosto 1980.
La Venditti, dunque, avrebbe dovuto e potuto confermare l’esistenza della fantomatica telefonata.
Una volta per tutte.
Ed invece, la Venditti ha dichiarato testualmente:
“A dirlo oggi, dopo più di vent’anni, direi proprio che la telefonata di Luigi non c’è stata, abbiamo rimandato il viaggio di nostra iniziativa dopo che era saltata la stazione di Bologna”
La Venditti, dunque, nega espressamente che tale telefonata sia mai stata fatta da Ciavardini.
Eppure nessuno ne parla.
Nonostante l’indifferenza riscontrata, il Comitato ritiene che tali dichiarazioni rivestano, di fatto, un’importanza notevole nella vicenda giudiziaria della Strage di Bologna ed aggiungano un tassello, l’ennesimo, in favore dell’innocenza di Ciavardini.
Perché i colpevolisti, ancora una volta, non si sono voluti confrontare con l’evidenza dei fatti?
Perché nessuno vuole riflettere sull’intervista rilasciata dalla Venditti?
Perché i colpevolisti continuano ad ignorare le dichiarazioni pubbliche effettuate dalla Venditti?
La conquista della Verità implica sempre un atto di coraggio.
E il coraggio nasce dalla propria Coscienza.
LA RESTITUZIONE DEL DOCUMENTO FALSO
L’esistenza della telefonata in esame, purtroppo, è stata ritenuta ormai definitiva provata nel Giudizio pendente nei confronti di Ciavardini.
La Suprema Corte di Cassazione, tuttavia, ha rilevato che essa rivelerebbe una conoscenza anticipata della Strage di Bologna ma non, anche, una partecipazione di Ciavardini alla medesima.
Un conto sarebbe la conoscenza, un altro la partecipazione.
Partecipazione, del resto, che non può essere provata neppure dall’assenza di un alibi provato.
Il “malato immaginario” Sparti, l’unico testimone che ha riferito di una presenza dei NAR a Bologna, non ha mai parlato di Ciavardini; anzi, ha escluso di averlo mai conosciuto.
Non esiste un teste, vero o falso che sia, che asserisca la presenza di Ciavardini a Bologna, la mattina del 2 agosto 1980.
Dunque, è doveroso chiedersi su cosa si fonda la tesi, ribadita ostinatamente dai colpevolisti, di una partecipazione di Ciavardini alla Strage di Bologna.
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Ricordiamo che la posizione di Ciavardini, allo stato attuale del processo, può essere fatta rientrare in una delle due seguenti alternativa: la mera connivenza o il concorso nella Strage di Bologna.
Purtroppo, sotto il profilo “tecnico”-formale, non v’è più la possibilità di dimostrare pienamente la Verità: l’estraneità assoluta all’attentato.
Secondo la nuova sentenza di condanna, emessa dalla sezione minorile della Corte d’Appello di Bologna, Ciavardini avrebbe valicato i limiti della mera connivenza – ricordiamo, non punibile – attraverso la restituzione a Fioravanti del documento falso – intestato all’ormai noto Flavio Caggiula – il giorno che precedette l’attentato.
Questo è il nuovo elemento su cui si fonda la sentenza di condanna di Ciavardini, attualmente al vaglio della Suprema Corte di Cassazione.
Secondo la prospettazione offerta dalla predetta Corte, la retrocessione del documento avrebbe consentito a Fioravanti di recarsi – tutelato da un’identità falsa – presso la stazione ferroviaria di Bologna, per compiere la Strage.
La condotta di Ciavardini, in tal modo, avrebbe oltrepassato i limiti della mera connivenza, divenendo a tutti gli effetti un “concorso” nel reato di Strage.
Ciavardini infatti, attraverso la restituzione del documento falso, avrebbe fornito un contributo causale alla determinazione dell’evento delittuoso: la Strage.
Può sembrare incredibile ma tale ragionamento ha motivato la condanna per concorso nel reato di Strage - sebbene ancora al vaglio della Cassazione - di Luigi Ciavardini.
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La storia di Luigi Ciavardini, dunque, sembra avere dell’incredibile.
A pochi giorni dal rinvio a giudizio dei minorenni, Ciavardini venne indicato come il “capo” dei due ragazzini che avrebbero collocato nella stazione di Bologna la valigia della morte.
Poi si scoprì che Izzo aveva mentito spudoratamente.
Nella prospettazione emersa nella prima sentenza di appello del giudizio, invece, Ciavardini sarebbe stato lui stesso il “mostro” che ha trasportato la valigia contenente i venticinque chili di esplosivo.
La prestanza fisica di Ciavardini avrebbe imposto tale conclusione: sarebbero serviti i suoi muscoli per sostenere il peso di venticinque chili di esplosivo.
In seguito, Ciavardini è stato indicato come il pilota dell’asserita automobile che avrebbe condotto gli stragisti a Bologna.
Ora, Ciavardini è stato condannato a trent’anni di reclusione - ma soprattutto alla “morte” civile - solo per aver restituito un documento falso a Fioravanti; l’1 agosto 1980.
L’ipotesi che la mera restituzione di un documento falsificato possa giustificare - già di per sé - una condanna per concorso nel reato di Strage non può non lasciare attonito anche il lettore meno indulgente nei confronti dell’imputato.
Eppure è proprio così.
Per questo motivo, si è cercato – nuovamente - di inserire Ciavardini nella fase esecutiva della Strage di Bologna.
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Secondo i colpevolisti, dunque, l’1 agosto 1980 Ciavardini avrebbe restituito a Fioravanti, giunto da poco in Veneto insieme alla Mambro, un documento falso recante il nome ormai noto di Flavio Caggiula.
Tale fatto, a loro avviso, assumerebbe la massima rilevanza.
Tale documento, come osservato in precedenza, dovrebbe comprovare la partecipazione fattiva di Ciavardini nella fase preparatoria della Strage.
Ed infatti, solo grazie alla riacquisizione del documento Caggiula, Fioravanti si sarebbe potuto recare l’indomani a Bologna; per eseguire indisturbato l’attentato alla stazione ferroviaria.
Fioravanti, infatti, avrebbe avuto la necessità di riacquisire un documento falso perché quello usato in precedenza - recante il nome di Amedeo De Francisci - sarebbe stato “bruciato”da un ritrovamento effettuato dalle forze dell’ordine a Roma, nel luglio del 1980.
La polizia, infatti, aveva scoperto per strada un giubbotto contenente, tra le varie cose, un certificato anagrafico del suddetto Amedeo De Francisci.
Il ritrovamento del giubbotto, in realtà appartenente a Fioravanti, aveva portato all’arresto di De Francisci, persona del tutto ignara dell’utilizzo che il primo aveva fatto dei suoi documenti di identità.
L’arresto di De Francisci, per ovvie ragioni, causò l’inutilizzabilità, da parte di Fioravanti, del documento intestato al primo, inducendolo a recuperare una carta di identificazione falsa.
Ora prestiamo la massima attenzione.
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La questione dei documenti, dunque, falsi assume nella vicenda giudiziaria di Ciavardini un’importanza assoluta.
E’ per tale ragione, probabilmente, che i colpevolisti sostengono che Ciavardini sarebbe stato in possesso, l’1 agosto 1980, di due documenti falsi, entrambi di “buon livello”.
Come visto, il primo documento, indicante il nome di Caggiula sarebbe stato restituito da Ciavardini, l’1 agosto 1980, a Fioravanti.
L’altro, recante invece il nome di Marco Arena, acquisito nel periodo addirittura antecedente all’inizio della latitanza.
Il documento Arena, secondo i colpevolisti, sarebbe rimasto in possesso dello stesso Ciavardini anche dopo la data dell’1 agosto 1980.
L’esistenza dei due documenti falsi, dunque, avrebbe consentito ai possessori di recarsi indisturbati a Bologna il 2 agosto 1980, ciascuno con una propria carta di identificazione idonea per una circolazione “sicura” nelle zone dell’operazione.
Fioravanti con il recuperato documento Caggiula, Ciavardini con il documento Arena.
E’ per tale ragione che l’eventuale esistenza di un secondo documento, per l’appunto quello recante il nome di Arena, assume la massima rilevanza per definire la posizione di Ciavardini.
Il documento Arena rappresenterebbe un presupposto indispensabile per ritenere possibile - seppure su un piano meramente congetturale - la sua partecipazione all’attentato di Bologna.
Ed invero, qualora venisse accertato che, in realtà, Ciavardini quell’1 agosto 1980 avesse avuto la disponibilità di un solo documento di identità falso - ossia il documento Caggiula, riacquisito poi da Fioravanti - la tesi della sua partecipazione alla Strage di Bologna risulterebbe già di per sé infondata.
Lo impone la logica e lo ammettono persino i colpevolisti.
L’eventuale presenza di Ciavardini alla Stazione di Bologna avrebbe dovuto implicare, necessariamente, il possesso di un documento falso, attese le oggettive esigenze di “prudenza” richieste da un’operazione straordinariamente “delicata” qual è, senz’altro, una Strage di 85 persone.
In assenza di un documento realmente utilizzabile, pertanto, non sarebbe sostenibile la tesi della presenza di Ciavardini a Bologna, la mattina del 2 agosto 1980.
Ora ragioniamo.
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Ciavardini sostiene di essersi disfatto, già prima dell’agosto 1980, del documento recante il nome di Marco Arena.
Questo documento era stato da lui acquisito ancora prima dell’inizio del periodo della latitanza.
Si sarebbe trattato di un falso talmente grossolano da non poter essere utilizzato in alcun modo.
Ciavardini, inoltre, afferma che dopo la riacquisizione del documento Caggiula da parte di Fioravanti, si sarebbe dovuto accontentare unicamente - quale inevitabile contropartita - del documento De Francisci, consapevole del fatto che quest’ultimo documento indicasse il nome di una persona arrestata.
L’utilizzo del documento De Francisci, dunque, lo avrebbe esposto al rischio di una facile, sicura identificazione.
Era dunque un documento inutilizzabile.
Ciò lo avrebbe obbligato, pertanto, a limitare drasticamente i propri movimenti
di latitante nel periodo successivo all’1 agosto 1980.
Ciavardini, infine, racconta di aver effettuato il 5 agosto 1980, al volante di un’auto rubata in precedenza dal gruppo di Fioravanti, un piccolo tamponamento che lo avrebbe poi costretto ad esibire, all’altro guidatore - ossia ad un estraneo - il documento “pericoloso” perché inutilizzabile.
E dunque, risulta di fondamentale importanza accertare un fatto.
E’ vero che Ciavardini, il 2 agosto 1980, aveva a disposizione solamente il predetto documento De Francisci, già “bruciato” con l’arresto dell’effettivo proprietario e dunque inutilizzabile?
Oppure ne poteva utilizzare anche un secondo - appunto, quello recante il nome di Marco Arena – falsificato adeguatamente, così da poter circolare liberamente nel luogo della Strage?
Ora facciamo attenzione.
***
Se fosse verosimile la tesi sostenuta dai colpevolisti – ossia, se il documento falso Arena presentasse effettivamente quei requisiti di qualità necessari per le esigenze dei latitanti – si dovrebbe trovare una risposta ad alcune domande.
Perché, ad esempio, il documento Arena non risulta mai essere stato utilizzato da Ciavardini?
Perché né Ciavardini né gli altri componenti della banda di Fioravanti se ne sono mai avvalsi durante tutto il periodo della latitanza?
Si deve osservare, infatti, che di tutti i documenti utilizzati dai membri del gruppo di Fioravanti si è trovata sempre traccia negli alberghi che hanno ospitato i componenti della banda lungo, tutto il territorio nazionale.
Ciavardini utilizzò il documento Caggiula fino a quando non lo dovette restituire a Fioravanti.
Fioravanti utilizzò il documento De Francisci – sino a quando, come visto, nel luglio 1980 lo stesso De Francisci fu arrestato - e poi usò ripetutamente il documento Caggiula di cui rimase in possesso dall’1 agosto 1980, sino al momento del suo arresto.
Cavallini utilizzò, a seconda della zona in cui stava operando, sia il documento Pavan, sia quello Bottacin.
Vale utilizzò il documento Savastano.
La Mambro utilizzò i documenti Smania e De Angelis.
Perché allora, attesa tale “girandola” di documenti falsi esibiti nei vari alberghi che ospitarono i membri della banda di Fioravanti, il documento Arena non venne mai utilizzato?
Perché né Ciavardini né gli altri componenti del gruppo hanno mai sfruttato in nessun modo questo documento?
Se davvero si fosse trattato di un documento falsificato in modo opportuno e dunque utilizzabile - come sostengono i colpevolisti - perché, allora, il documento Arena non compare mai nei continui spostamenti da latitanti dei NAR?
I colpevolisti non sembrano fornire alcuna spiegazione del mancato utilizzo del documento Arena da parte di Ciavardini e degli altri.
Ciò risulta un fatto altamente sintomatico della veridicità delle dichiarazioni di Ciavardini.
E’ proprio il mancato utilizzo del documento Arena ad indurci a ritenere che il documento Arena fosse - in realtà - un falso talmente grossolano da non poter essere esibito in pubblico.
E’ verosimile, dunque, che Ciavardini si fosse già sbarazzato da tempo di un documento falso inutile ed inutilizzabile.
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Si deve osservare, del resto, che il documento Arena è il primo in ordine di tempo di cui Ciavardini sarebbe entrato in possesso.
E dunque, se si fosse trattato di uno strumento effettivamente utilizzabile, Ciavardini non avrebbe avuto alcuna necessità di procurarsi il secondo documento; quello recante il nome di Caggiula.
Documento Caggiula che, pur essendo entrato in possesso di Ciavardini solo in un momento successivo, è però l’unico - non certo a caso - ad essere utilizzato dal minore durante il periodo della latitanza.
Arena, invece, non è mai stato adoperato.
Ma che senso avrebbe avuto l’acquisizione di un secondo documento, se Ciavardini già ne avesse a disposizione uno adeguato?
Perché Ciavardini avrebbe aspettato il prestito di un secondo documento per farne esibizione pubblica, se già il primo fosse stato un falso idoneo per la circolazione di un latitante.
L’evidenza impone una sola risposta.
La logica sembra confermare, inevitabilmente, che il documento Arena era stato, come sostiene Ciavardini, un falso grossolano e, dunque, perfettamente inutilizzabile.
Per questo motivo, se ne era disfatto già da tempo.
***
I colpevolisti sostengono, tuttavia, che era prassi del gruppo di Fioravanti utilizzare contemporaneamente due documenti falsi.
Sicché non sarebbe stato un fatto anomalo il possesso da parte di Ciavardini, sino all’1 agosto 1980, sia del documento Caggiula, sia del documento Arena.
Cavallini, ad esempio, poteva disporre sia del documento Pavan sia di quello Bottaccin.
Ma anche in tale caso, la questione da noi posta del mancato utilizzo del documento Arena da parte del Ciavardini non viene risolta, in alcun modo, dai colpevolisti.
Ed infatti, Cavallini utilizzò, a seconda dei casi, o della zona in cui si trovava, entrambi i predetti documenti in suo possesso sicché non risulta possibile dubitare della buona “qualità” di tutte e due le carte di identificazione false.
Di conseguenza, la prassi del gruppo sarebbe stata, al limite, quella di utilizzare più documenti solo nel caso in cui uno dei sui componenti avesse avuto la “fortuna” di poter disporre effettivamente di più carte di identificazione false.
Chi aveva due documenti falsi, poteva fare uso di entrambi.
L’utilizzo di più documenti falsi, anzi, avrebbe potuto garantire una sensibile di
diminuzione del rischio di essere rintracciati dalle autorità.
Ciò, però, non accadde affatto per quanto concerne Ciavardini.
***
Ad esempio, nel luglio del 1980, Ciavardini soggiornò in un albergo di Venezia
assieme alla Venditti.
In quell’occasione, esibì il documento Caggiula e non, certo, il documento Arena che - ripetiamo - non venne mai utilizzato in nessuna occasione, né da Ciavardini né dagli altri componenti della banda Fioravanti.
Perché questa scelta?
Perché, se la prassi del gruppo fosse stata quella di utilizzare più documenti, per quanti ne avessero l’effettiva possibilità – vedi il caso Cavallini - Ciavardini si limitò, invece, ad usare sempre e solo la stessa carta di identificazione falsa?
Come è possibile che Ciavardini utilizzi sempre e solo il documento falso Caggiula, peraltro acquisito successivamente?
Pertanto, la circostanza che solo Cavallini – ma non certo Ciavardini - utilizzasse contemporaneamente i due documenti falsi a sua disposizione rafforza ulteriormente la tesi per cui quest’ultimo, sino all’1 agosto 1980, al contrario del primo sarebbe stato in possesso di un unico documento.
Ciavardini aveva a disposizione il solo documento Caggiula.
L’acquisizione del documento Caggiula, verosimilmente, si sarebbe resa necessaria proprio con l’acquisizione dello status di latitante, condizione – appunto - che avrebbe obbligato Ciavardini a munirsi di una carta di identificazione falsa, consona alla condizione di un ricercato.
Esigenza che, al contrario, di certo non sarebbe sussistita al momento dell’acquisizione del documento Arena, i cui caratteri grossolani non avrebbero potuto recare alcun pregiudizio a Ciavardini il quale, non essendo ancora un latitante, poteva tranquillamente fare uso della propria carta di identità.
Il documento Arena, infatti, comparve - e su questo non vi sono dubbi - solamente nella fase embrionale delle attività illegali di Ciavardini.
Il documento Arena, più precisamente, figurò solo nel periodo in cui Ciavardini circolava liberamente con la propria carta di identità, non avvertendo la necessità effettiva di possedere un documento falso.
E’ assolutamente verosimile, dunque, che il documento Arena fosse stato un falso grossolano, acquisito nel periodo antecedente alla rapida escalation delinquenziale di Ciavardini.
***
Walter Sordi, Stefano Soderini e Cristiano Fioravanti, come noto, sono alcuni tra i più importanti pentiti dell’estrema destra.
Divenuti collaboratori di Giustizia, hanno rilasciato dichiarazioni incriminanti che hanno portato - in altri processi - alla condanna di numerosi militanti di destra; anche dei tre imputati per la Strage di Bologna.
In tali contesti, sono risultati del tutto attendibili dai colpevolisti.
I rapporti con gli altri detenuti di destra, e con gli imputati per la Strage di Bologna, sono divenuti da tanti anni notoriamente ostili.
E dunque, si deve attribuire credibilità - ad avviso del Comitato - ai suddetti pentiti quando riferiscono univocamente la medesima circostanza.
I tre pentiti, infatti, hanno confermato la versione fornita dallo stesso Ciavardini per cui quest’ultimo, in occasione del tamponamento automobilistico del 5 agosto 1980, avrebbe esibito il documento “bruciato” De Francisci, suscitando le ire di tutti gli altri componenti del gruppo.
Facciamo attenzione.
Se, quel 5 agosto 1980, Ciavardini fosse stato costretto in effetti ad esibire il documento “bruciato” De Francisci – non avendo, evidentemente, alternative nella scelta - la tesi del doppio documento (Caggiula e Arena) in suo possesso risulterebbe del tutto infondata.
Ed infatti, in tale prospettiva, Ciavardini avrebbe preferito - senza alcun dubbio - l’utilizzo del documento Arena, un falso perfettamente utilizzabile a dire dei colpevolisti, al documento De Francisci, reso ormai “pericoloso” dall’arresto di quest’ultimo.
Invece, i tre pentiti riferirono unicamente che Ciavardini, nella circostanza, sarebbe stato costretto ad esibire il documento già “bruciato” De Francisci.
Perché, evidentemente, non ne aveva altri a disposizione.
Le testimonianze dei tre pentiti in questione hanno consentito di condannare numerosi estremisti di destra, in altri processi.
Eppure, nel caso in esame, scagionano Ciavardini.
I colpevolisti – tuttavia - ritengono non credibili, proprio e solo in tale contesto, Sordi, Soderini e Cristiano Fioravanti.
E’ lecito chiedersi, però, perché venga riconosciuta attendibilità ai suddetti pentiti solo nei casi in cui questi ultimi rilasciano dichiarazioni incriminanti contro gli imputati?
Oltre la logica, a nostro avviso, è necessaria un’uniformità minima di giudizio quando si valuta l’attendibilità dello stesso teste, seppure in contesti differenti.
Non è concepibile il ruolo di collaboratore di Giustizia part-time o, peggio ancora, il principio della credibilità del testimone ad intermittenza, in base alle contingenti necessità accusatorie.
Appare assai significativo, dunque, che - relativamente ai processi per la Strage di Bologna - i colpevolisti hanno ritenuto attendibile sempre e solo chi ha accusato gli imputati.
I colpevolisti non hanno mai riconosciuto alcuna credibilità a chi ha effettuato dichiarazioni di segno contrario.
Eppure, è proprio la provenienza delle dichiarazioni dinnanzi riferite - rese da collaboratori di Giustizia che si trovano in un rapporto di manifesta inimicizia con gli imputati per la Strage di Bologna - a costituire una certa garanzia di attendibilità delle medesime.
Anche tali deposizioni, dunque, inducono seriamente a ritenere che Ciavardini, al momento della Strage di Bologna, non fosse in possesso di un altro documento falso ma disponesse, effettivamente, del solo documento De Francisci.
Ovvero, il documento che era stato già “bruciato” in precedenza, in ragione dell’arresto di quest’ultimo.
Le tesi dei colpevolisti, dunque, viene smentita proprio da quei collaboratori di Giustizia a cui i primi hanno sempre riconosciuto la massima attendibilità; per convalidare le proprie ipotesi accusatorie.
Ma non basta.
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Prestiamo ora la massima attenzione.
E’ fatto pacifico che il 4 agosto 1980 Ciavardini incontrò a Venezia la Loreti, Pizzari e la Venditti, sua fidanzata.
E’ fatto altrettanto certo che la Loreti, Pizzari e la Venditti si fermarono quella notte a Venezia, sistemandosi in un albergo.
Ciavardini, al contrario, non seguì la fidanzata e gli amici in albergo ma fu costretto a tornare presso l’abitazione di Treviso - messagli a disposizione da Cavallini - dov’era ospite già da tempo.
Quel giorno non erano previsti impegni od appuntamenti di sorta sicché la scelta di tornare a Treviso non venne dettata da esigenze di carattere militante.
Perché Ciavardini, dunque, non restò a dormire insieme agli amici Pizzari e Loreti?
Perché, soprattutto, Ciavardini non rimase insieme alla fidanzata Venditti, giunta da Roma sino in Veneto proprio per stare un po’ di tempo insieme a lui?
Perché Ciavardini non colse l’occasione, tanto desiderata quanto rara, di trascorrere la notte con la Venditti ma decise, al contrario, di allontanarsi da Venezia quella notte del 4 agosto 1980?
Cosa impedì a Ciavardini di seguire, come accaduto in precedenza, gli altri ragazzi nell’albergo veneziano?
Sappiamo con certezza che, dal 21 luglio sino al 24 luglio 1980, Ciavardini non ebbe alcuna difficoltà nel sistemarsi, insieme alla sua fidanzata, presso l’albergo “Casanova” di Venezia, esibendo per l’occasione il documento Caggiula.
Ciavardini il 24 luglio 1980 era già latitante ed i rischi di soggiornare in un albergo, il 4 agosto 1980, erano gli stessi della volta precedente.
Cos’era cambiato per Ciavardini, dunque, da quel 24 luglio al 4 agosto 1980?
Cos’era successo, in questo lasso di tempo, a Ciavardini, così da indurlo a cambiare abitudine?
Cosa indusse a Ciavardini a non sistemarsi nell’hotel in cui alloggiava la propria fidanzata, così come aveva fatto solo qualche settimana prima?
La risposta, imposta dalla logica, sembra essere una sola.
Il 4 agosto 1980 Ciavardini non si trovava più in possesso di un documento falso, tale da poter essere utilizzato a da consentirgli di fermarsi senza difficoltà presso un albergo.
Il 21 luglio 1980, Ciavardini potè disporre del documento Caggiula, falsificato a dovere e dunque agevolmente utilizzabile.
E’ per questo motivo che non esitò a sistemarsi nell’albergo “Casanova” insieme alla fidanzata.
Ma dall’1 agosto 1980 era cambiato tutto.
Il documento Caggiula era stato acquisito da Fioravanti sicché Ciavardini nei giorni successivi - sprovvisto di altri documenti “validamente” falsificati - avrebbe potuto circolare in pubblico solo con il documento “bruciato” De Francisci.
Il Documento De Francisci, recante l’identità di una persona detenuta in carcere, non era assolutamente idoneo ai fini di un’esibizione presso la reception dell’albergo.
E’ ovvio, dunque, che se avesse avuto effettivamente la disponibilità di un documento falso – come nel caso del documento Caggiula – Ciavardini non avrebbe esitato un attimo a trattenersi in albergo con la fidanzata Venditti e gli altri ragazzi.
Ed invece, Ciavardini dovette rinunciare a questa opportunità, di certo assai gradita, ripiegando nel rifugio di Treviso, pur in completa assenza di impegni o di appuntamenti di altro genere da rispettare.
Ciò ci induce a ritenere, in via definitiva, che Ciavardini non potesse avere a disposizione alcun documento falso, il 4 agosto 1980.
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Ebbene, se il 4 agosto 1980 Ciavardini non fosse stato in possesso di un documento che gli consentisse di soggiornare in un albergo di Venezia, risulterebbe del tutto insostenibile che ne avesse utilizzato uno, solo due giorni prima, per poter partecipare indisturbato ad un’operazione straordinariamente impegnativa quale la Strage di Bologna.
Se, al contrario, Ciavardini avesse avuto a disposizione un documento falso per recarsi indisturbato a Bologna il 2 agosto 1980, non avrebbe trovato difficoltà alcuna ad utilizzare la stessa carta di identificazione in un albergo di Venezia, solo due giorni dopo.
Ma è fatto pacifico che ciò non sia avvenuto.
E non si può continuare ad ignorarlo.
La Verità è un valore assoluto.
Al contrario della ragion di stato e degli interessi di partito.
L’ARRESTO DI CIAVARDINI
Da ultimo, si osserva che al momento del suo arresto, occorso il 4 ottobre 1980 – Ciavardini venne trovato in possesso di un documento d’identità falso, acquisito con assoluta certezza nel periodo successivo al giorno della Strage di Bologna.
Tale documento recava il nome di Alessandro Restini.
Ma se Ciavardini fosse stato già in possesso di un documento falso, quello più volte menzionato indicante il nome di Marco Arena, perché avrebbe dovuto procurasene un altro?
E che fine ha fatto il documento Arena, atteso che al momento in cui Ciavardini venne arrestato non ve n’era traccia alcuna?
Quando Ciavardini fu arrestato, il 4 ottobre 1980, era in possesso del documento falso intestato ad Alessandro Restini, acquisito con certezza nel periodo successivo alla Strage di Bologna.
Tiriamo le somme.
Del documento Arena non v’era traccia al momento dell’arresto di Ciavardini.
Del documento Arena non v’era traccia alcuna negli alberghi in cui Ciavardini e gli altri militanti dei NAR sono stati ospiti.
Del documento Arena non v’è mai stata traccia da nessuna parte.
Ciò impone delle conclusioni obbligate.
Ciavardini si dimostra sincero quando sostiene di essere rimasto sprovvisto di un documento falso, al momento della restituzione a Fioravanti di quello intestato a Caggiula.
Tutti gli elementi sin qui esposti, se valutati con obiettività e senza pregiudizi, militano in modo univoco nella direzione dell’innocenza di Ciavardini.
Ciavardini il 2 agosto 1980 non era in possesso né del documento falso intestato a Marco Arena, né di altre carte di identità realmente utilizzabili.
Ad un attento e sereno vaglio dei fatti, dunque, le tesi dei colpevolisti si dimostrano nuovamente prive di riscontro.
Basterebbe avere il buon senso di prenderne atto.
***
Del resto, l’assenza di un secondo documento falso con cui Ciavardini potesse circolare in tale periodo sembra trovare riscontro in numerose altre circostanze che siamo costretti, però, a differire in altre sedi.
Si pensi, tuttavia, all’episodio del tamponamento effettuato da Ciavardini il 5 agosto 1980.
Cosa potrebbe aver suscitato le ire degli altri componenti della banda, al punto da far maturare la decisione dell’allontanamento del minore, ritenuto da Fioravanti troppo imprudente per poter far parte di un gruppo armato?
Sarebbe stato sufficiente un mero incidente automobilistico per determinare un risentimento di siffatto genere?
Il sinistro stradale è un fatto che può accadere ad ogni latitante che è alla guida di un automobile rubata, e ciò a prescindere dal suo effettivo grado di avvedutezza.
E’ una situazione, dunque, che si può verificare indipendentemente dal grado di esperienza, sia del latitante esperto che della persona comune.
Ed allora, quale sarebbe stata l’imprudenza dimostrata nella circostanza in oggetto dal Ciavardini?
Il presunto documento Arena, a ben vedere, non era mai stato “bruciato” sicché la sua eventuale esibizione in tale contesto non avrebbe consentito alle forze di polizia di effettuare collegamenti diretti con il gruppo dei NAR.
Al contrario, l’utilizzo avventato del documento “bruciato” De Francisci avrebbe lasciato intendere una condotta fortemente imprudente del Ciavardini in quanto con essa le forze dell’ordine avrebbero potuto porre in relazione il ritrovamento a Roma del giubbotto – di proprietà del Fioravanti ma che, come visto aveva portato all’arresto del De Francisci – con gli spostamenti del gruppo armato capitolino in Veneto.
E’ ovvio, dunque, che proprio l’esibizione del documento De Francisci a scatenare, verosimilmente, le ire degli altri componenti del gruppo e a indurre questi ultimi a maturare la decisione dell’allontanamento di Ciavardini dalla banda.
Ora prestiamo la massima attenzione.
L’ALLONTANAMENTO DI CIAVARDINI DAI NAR
Se Ciavardini, Mambro e Fioravanti avessero davero compiuto la Strage di Bologna, come sarebbe possibile che questi avrebbero deciso di allontanare dal gruppo il minore, solo pochi giorni dopo l’esecuzione dell’attentato?
In soli quattro giorni, gli imputati sarebbero passati dalla compartecipazione all’evento terroristico più eclatante del dopoguerra, alla rottura definitiva tra di loro.
Sarebbero bastate novantotto ore per passare dalla condivisione della Strage di Bologna, l’episodio di terrorismo più grave di tutta la storia italiana, ad un allontanamento così drastico.
I colpevolisti, del resto, sostengono espressamente che Ciavardini avrebbe partecipato alla Strage perché ritenuto un elemento infungibile ed insostituibile della banda.
Perché allora la banda lo avrebbe allontanato solo poche ore dopo la Strage?
La logica suggerirebbe dei sorrisi ironici, se non fosse che la gravità della questione impone a tutti la massima serietà.
In realtà, l’allontanamento stesso di Ciavardini induce a trarre conclusioni di segno ben diverso.
Mambro e Fioravanti ritenevano Ciavardini – all’epoca, si ricordi minorenne – una persona ancora inaffidabile ed in grado di porre in serio pericolo il gruppo con la sua condotta imprudente.
L’esibizione del documento De Francisci in occasione del sinistro stradale ne avrebbe costituito la riprova.
Per questo lo allontanarono dalla banda.
Ma allora, Se Ciavardini fosse stato davvero uno dei coautori della Strage, perché Mambro e Fioravanti avrebbero deciso di allontanare così in fretta quel soggetto considerato imprudente?
Perché allora, solo quattro giorni prima, lo avrebbero ritenuto idoneo per un’azione di proporzioni immani?
E perché, utilizzato per la Strage e scaricato solo poche ore dopo, avrebbero accettato l’enorme rischio di lasciarlo circolare da solo, con la sua imprudenza e con un “segreto” di quelle dimensioni da poter rivelare a terzi?
La logica più elementare ci impone di ritenere che la compartecipazione ad un’azione terroristica di eccezionale gravità avrebbe dovuto rafforzare enormemente i vincoli di complicità dei presunti coautori.
Soprattutto, poi, se uno di questi è considerato assai più imprudente dagli altri.
Al momento dell’allontanamento di Ciavardini, si ripete, sono passati solo quattro giorni dalla Strage di Bologna.
Il buon senso, dunque, ci induce a delle riflessioni obbligate.
I soggetti più avveduti della banda - ritenendo Ciavardini ancora inesperto - invece di metterlo in condizione di incontrare liberamente altre persone con cui parlare, avrebbero dovuto preoccuparsi, piuttosto, di tenerlo sotto stretto e diretto “controllo”.
E dunque, se Ciavardini, fosse stato effettivamente uno degli autori della Strage di Bologna - il più imprudente di tutti - risulterebbe del tutto inverosimile che gli altri presunti responsabili se ne fossero sbarazzati proprio all’indomani dello spaventoso attentato.
Al contrario, appare logico ritenere che tale allontanamento fosse maturato in un momento in cui Ciavardini, Mambro e Fioravanti non dovessero condividere alcun segreto “straordinario” .
Per il semplice fatto che tutti e tre erano estranei all’attentato del 2 agosto 1980.
Anche la condotta assunta da Fioravanti, Mambro e Ciavardini nei giorni immediatamente successivi al 2 agosto 1980 - se valutata con obiettività e senza criteri pregiudiziali di interpretazione – milita fortemente nella direzione della loro estraneità alla Strage di Bologna.
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Non a caso, i colpevolisti sostengono che in realtà, nel periodo successivo alla Strage, Fioravanti avrebbe voluto uccidere Ciavardini in quanto ritenuto un complice troppo pericoloso in ragione della sua imprudenza dimostrata nella vicenda della Strage di Bologna.
E ciò in ragione della presunta telefonata di cui si è parlato in precedenza.
Di un reale progetto omicida in danno di Ciavardini, in realtà, non v’è alcun serio riscontro.
Al contrario, è ancora una volta la logica più elementare che rivela l’inconsistenza delle tesi dei colpevolisti.
Se Fioravanti avesse maturato effettivamente la decisione di eliminare Ciavardini, in quanto a conoscenza delle pretese “verità” del 2 agosto 1980, perché allora lo avrebbe allontanato dal gruppo già il 5 agosto ?
Perché Fioravanti avrebbe dato a Ciavardini la possibilità di scappare e di rendersi irreperibile, se avesse avuto davvero l’intenzione di assassinarlo?
E’ sin troppo ovvio che, se vi fosse stato effettivamente un concreto proposito di uccidere Ciavardini - in ragione della condotta assunta da questo a ridosso della Strage di Bologna - sarebbe stato sufficiente trattenerlo nel gruppo, così da poterlo eliminare con la massima tranquillità, alla prima occasione.
Ed invece, i NAR decisero di “scaricare” Ciavardini e di abbandonarlo al suo destino di latitante.
Così da doverlo ricercare alla cieca, in un momento successivo, con il rischio peraltro che in attesa di trovarlo, Ciavardini potesse essere – come effettivamente accaduto, peraltro – arrestato dalle forze dell’ordine?
Anche in tal caso, le tesi dei colpevolisti sembrano violentare le regole più elementari della logica.
Il proposito omicida di Fioravanti, sempre secondo la curiosa prospettazione dei colpevolisti, dopo l’arresto di Ciavardini si sarebbe trasformato poi in un paradossale “baratto”.
Ovvero, in un accordo tacito di reciproca convenienza.
***
Tale intesa, nello specifico, avrebbe previsto il silenzio di Ciavardini in ordine ai fatti del 2 agosto 1980 in cambio dell’impegno di Fioravanti, e degli altri NAR, a non coinvolgerlo nel processo per l’uccisione del Giudice Amato, occorsa circa due mesi prima della Strage di Bologna.
Anche la manifesta illogicità della tesi del “baratto”, evidente a tutti, è stata sancita duramente dalla Suprema Corte di Cassazione.
E’ sin troppo evidente, in effetti, che il “sinallagma” postulato dal predetto baratto potrebbe rivelare - al limite - l’estraneità di Ciavardini alla Strage di Bologna, non certo un suo coinvolgimento.
Se Ciavardini fosse realmente colpevole, infatti, l’interesse a mantenere il silenzio sulla Strage di Bologna non sarebbe subordinato ad alcuno scambio di favori.
E’ sin troppo ovvio che la convenienza a tacere, per Ciavardini, risulterebbe strettamente personale e non dovrebbe presupporre in cambio alcuna contropartita.
E’ semplicemente assurdo ipotizzare che Ciavardini abbia condizionato il suo silenzio sul fatto di terrorismo più grave della storia italiana - che lo vedrebbe implicato personalmente - per essere “aiutato” in un processo di minore gravità.
Secondo la tesi formulata dai colpevolisti – è opportuno ribadirlo per il lettore meno esperto – Ciavardini avrebbe perfezionato un accordo tacito con Fioravanti di questo tenore: “copri le mie responsabilità su un omicidio, altrimenti racconto che sia io che te abbiamo compiuto una Strage di 85 persone”.
E’ possibile, nonostante il profondo rispetto che si deve alle opinioni altrui, prendere in considerazione ipotesi di questo genere?
E’ ammissibile che taluni, pur di dimostrare in qualche modo la colpevolezza di Ciavardini, abbiano deciso di frantumare le regole più semplici della logica?
il cerchio di Ciavardini, nonostante gli sforzi ventennali, non si riesce a quadrare.
Bisognerebbe solo avere il coraggio di ammettere che si tratta di un cerchio.
E non di un quadrato.
***
Gli argomenti trattati con tale documento, come affermato più volte, non consentono di evidenziare a sufficienza tutti i fatti di maggiore rilevanza che concernono la Strage di Bologna.
E’ sincera Speranza del Comitato, tuttavia, che il lettore abbia avuto, già da ora, l’effettiva percezione delle numerose anomalie riscontrate in questa vicenda giudiziaria.
Per i colpevolisti, come visto, va presa in considerazione sempre e solo la versione dei fatti che ha suggerito la colpevolezza degli imputati.
I testimoni sono stati ritenuti attendibili sempre e solo quando hanno deposto contro gli imputati.
Le molteplici e discordanti versioni dei testi sono state considerate credibili dai colpevolisti sempre e solo quando sono andate ad inquadrarsi correttamente nell’impianto accusatorio.
Un impianto accusatorio che è stato imposto a priori.
In assenza di movente e di mandanti.
Del falso tumore che ha restituito la libertà al falso-teste chiave Sparti non si deve più parlare.
Perché l’opinione pubblica non lo deve sapere.
Perché l’opinione pubblica non deve porsi domande.
La cartella clinica di Sparti è perita stranamente in un incendio.
I depistaggi orditi da P2 e servizi segreti “deviati” contro i militanti della destra radicale sono diventati, attraverso un’operazione di prestigio, depistaggi a favore della destra.
I depistaggi orditi contro i NAR sono stati trasformati - per incanto – in attività di copertura in favore dei NAR.
Si è voluto dimenticare che Giorgio Vale fosse amico e sodale dei tre imputati nel processo per la Strage di Bologna.
Che Vale fosse uno dei NAR.
Perché, se i NAR venissero riconosciuti le vittime di questa terribile vicenda, e non i carnefici, le ricostruzioni storiche di partito crollerebbero in un attimo solo.
La telefonata dell’1 agosto 1980 di Ciavardini deve esserci stata per forza.
Anche se oggi nessuno dei protagonisti la ricorda.
Anche se la Venditti l’ha esclusa espressamente, in un’intervista ignorata da tutti.
Il documento Arena deve essere stato per forza una falso perfetto.
Anche se è stato l’unico documento, in questa vicenda, a non essere mai stato utilizzato dagli imputati.
I tentativi di uccidere Ciavardini, mai dimostrati, si sono trasformati - opportunamente - in baratti privi di logica.
La logica.
La logica ha dovuto soccombere all’idea pregiudiziale - la responsabilità fascista - che è stata imposta da subito, e dall’alto, alla vicenda della Strage di Bologna.
Il colpevole è dovuto arrivare dall’estrema destra, per forza di cose.
I conti sono dovuti tornare, sempre.
Perché, forse, gli scenari reali di quella tragica estate del 1980 devono rimanere inconfessabili all’opinione pubblica.
Perché i mandanti ed i reali esecutori non sono stati ancora scoperti.
Perché agli italiani non è consentito sapere l’amara Verità.
Un particolare, in apparenza secondario, ci ha lasciato attoniti.
Il 28 maggio 1980, in occasione dell’omicidio dell’agente di polizia Franco Evangelista, Ciavardini si era procurato una vistosa ferita ad un zigomo.
Il volto, secondo Ciavardini, sarebbe rimasto sfigurato a lungo, molto più a lungo di quel 2 agosto 1980.
La ferita, dunque, avrebbe reso facilmente riconoscibile Ciavardini, rendendo di fatto insostenibile la sua partecipazione ad una azione di inaudita gravità come la Strage di Bologna.
Lo avrebbe notato chiunque fosse all’interno della Stazione e, di certo, non sarebbero bastati gli occhiali da sole per confondersi tra la folla.
Lo ammettono gli stessi colpevolisti.
Il 4 ottobre 1980 Ciavardini fu arrestato a Roma.
I colpevolisti sostengono di aver osservato con molta attenzione la foto scattata a Ciavardini il giorno della cattura ma di non avere riscontrato nulla di particolare.
Asseriscono di non aver notato né ferite né cicatrici.
Chi abbia l’occasione di incontrare personalmente Ciavardini, viene colpito immediatamente da quella ferita che – ormai sbiadita - rimane comunque visibile sul suo volto; ancora oggi, a ventisei anni da quel 28 maggio 1980.
Noi la cicatrice l’abbiamo vista, i colpevolisti no.
Sulla pelle di Luigi Ciavardini rimangono impressi, ancora oggi, non solo i segni del suo passato drammatico ma anche, soprattutto, le ragioni la sua innocenza.
Non può essere l’inconsolabile dolore della famiglia Evangelista, né di quella Amato, a giustificare il martirio di una persona che, nonostante le scelte tragiche compiute in quei maledetti anni di piombo, non ha nulla a che fare con la Strage di Bologna.
Deve finire, nel nostro paese, il tempo dei martiri.
E’ giunto il momento di mettere da parte le pregiudiziali ideologiche.
Bisogna liberarsi degli odi di parte.
Occorre abbandonare le idee preconcette.
S’impone il coraggio di non giudicare l’innocenza di una persona in base al giusto disappunto che destano le sue scelte passate.
Vanno usati, più di ogni altra cosa, gli strumenti della ragione.
La dichiarazione d’innocenza è un atto di Verità; e null’altro.
Se il cattivo non ha commesso un fatto, resta comunque innocente.
Innocente.
***
Sarebbe il caso, dunque, che l’opinione pubblica tornasse a discutere serenamente, ed in modo intelligente, sul caso della Strage di Bologna.
Sarebbe il caso che le personalità in grado di produrre quell’eco mediatica, a noi preclusa, trovino il coraggio di prendere posizione sul caso Ciavardini.
Comportandosi da Uomini.
Mettendoci la faccia.
Ribellandosi alla congiura del silenzio.
Alzando garbatamente la voce, oggi che nessuno vuole più parlare della Strage di Bologna.
Si tratta dell’ultima vicenda giudiziaria sopravvissuta alla maledetta stagione degli anni di piombo.
Non basta la grazia concessa a Bompressi, né quella destinata prossimamente a Sofri, a chiudere definitivamente la pagina più sofferta della storia dell’Italia repubblicana.
Non s’illudano i furbi.
Sarebbe stupido, oltre che profondamente ingiusto, spargere nuovamente quei semi d’odio che impedirebbero all’Italia di diventare, finalmente, un paese normale.
Sarebbe il caso che tutti insieme - al di là delle differenze politiche - tentassimo di dissolvere quelle nubi oscure che si addensano ancora nei cieli plumbei del capoluogo emiliano.
Con la logica e non con l’ottusità, con la ragione e non con le idee preconfezionate, con il buon senso e non con la faziosità.
L’ipocrisia, in questi momenti, serve a poco.
La società italiana, quella immune dai calcoli politici e dalle esigenze di parte, ha riconosciuto già da tempo l’innocenza di Ciavardini, Mambro e Fioravanti.
Lo abbiamo appreso da insigni politici, autorevoli magistrati, giornalisti di fama.
E ciò – si faccia attenzione – non sposta di un centimetro, le convinzioni politiche di ogni cittadino, a destra come a sinistra.
Condannare tre persone innocenti - perché tutti sanno che di innocenti si tratta - significa mantenere in libertà i veri colpevoli.
Mantenere in libertà i veri colpevoli, in un momento storico in cui la follia stragista continua a esplodere nel mondo con sconcertante continuità, non costituisce solo un oltraggio alla Verità.
Essa rappresenta un fatto vergognoso e straordinariamente pericoloso.
E’ un fatto straordinariamente pericoloso che il caso umano e giudiziario di Luigi Ciavardini rischi, ancora oggi, di rappresentare, tra l’indifferenza di tanti, la riedizione italiana del dramma di Sacco e Vanzetti.
E’ un fatto straordinariamente pericoloso perché, se incoraggiato, rischia di potersi ripetersi ancora, in futuro.
Per questa ragione, noi ci batteremo, sino all’ultimo, affinché ciò non accada.
Perché la Verità, purtroppo, resta ancora sepolta tra le macerie di quella maledetta estate del 1980.
Perché, al pari di Mambro e Fioravanti, Luigi Ciavardini è innocente.
- IL COMITATO L’ORA DELLA VERITA’ -
" Signor presidente, da quella lapide dobbiamo togliere le parole "strage fascista", perché ciò è riduttivo e fa parte del depistaggio operato sulla strage di Bologna, diversa dalle altre stragi e che ha molto più a che fare con Ustica e con i rapporti tra Italia, Francia, Stati uniti, i servizi occidentali e le strutture segrete. Dire che sono stati Fioravanti e compagni è stato un depistaggio: su quella lapide bisogna scrivere "strage di stato"! "
Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, le parole dinnanzi richiamate non appartengono ad un esponente politico di destra. A pronunciarle, infatti, fu l’Onorevole Luigi Cipriani, deputato di Democrazia Proletaria, nel 1990, in occasione del decimo anniversario della Strage di Bologna.
Le affermazioni dell’autorevole esponente di DP, un partito a suo tempo collocato a sinistra dello stesso partito comunista, non lasciano spazio ad equivoci: lastoriadella strage fascista e delle responsabilità di Mambro, Fioravanti e Ciavardini rientra a pieno titolo nei depistaggi che hanno impedito di trovare la Verità in ordine alla vicenda più drammatica della storia italiana del dopoguerra.
La difesa accanita dell’innocenza dei “neri”, da parte di un deputato demoproletario non può certo spiegarsi in termini ideologici.
Pertanto, tale presa di posizione rende alla perfezione il senso assolutamente trasversale di questa battaglia di Giustizia: la Verità appartiene a tutti i cittadini e non bastano i colori politici per accettare colpevoli di comodo.
Lo dimostra la lunga schiera di parlamentari di sinistra che non fa mistero delle proprie perplessità circa il teorema giudiziario relativo alla Strage di Bologna.
Ad esempio, Ersilia Salvato di Rifondazione Comunista e Luigi Manconi dei Verdi aderirono al celebre comitato “e se fossero innocenti?”, composto in maggioranza - non a caso – da persone non solo lontane dalla destra ma, addirittura, contrapposte radicalmente a questa.
Detto comitato, non a caso, riscosse forti consensi anche in ambito giornalistico.
Si pensi, tra i tanti, a Sandro Curzi, direttore di “liberazione”, quotidiano di Rifondazione Comunista o ad Andrea Colombo, penna prestigiosa del “manifesto”, il quale in occasione del 25° anniversario della Strage, dopo aver esposto correttamente e con grande determinazione le ragioni dell’innocenza di Ciavardini e degli altri, ha polemizzato con una fazione della sinistra bolognese: “c'è da chiedersi se, prima di indignarsi, il Prc emiliano si sia preso la briga di consultare gli atti processuali che hanno portato alle condanne dei Nar”.
Del resto, la sensibilità per questa battaglia di Giustizia è particolarmente evidente negli ambienti del “manifesto”.
Rossanda Rossanda, nome storico del quotidiano comunista, non ha mai perso occasione per ribadire le proprie convinzioni innocentiste mentre Alessandro Mantovani, giornalista emergente del “manifesto”, ha più volte bollato il processo per la Strage di Bologna come viziato da un assai discutibile teorema giudiziario.
Tale spontaneo “fronte” dell’innocenza trova ovviamente molti consensi anche a destra.
Tra i tanti giornalisti vicini all’area del polo della libertà, che reclamano a gran voce il riconoscimento dell’innocenza di Ciavardini e degli altri, si devono ricordare Marcello De Angelis, direttore del mensile Area vicino alla destra sociale, il quale da anni si batte con accanimento per la ricerca della Verità e Gian Marco Chiocci, redattore del “giornale”, anch’egli impegnato da tempo nell’approfondimento della pista internazionale, sino a pochi anni fa’ completamente ignorata dalle autorità.
Con toni inequivocabili, anche importanti ex direttori di quotidiani di massima diffusione come il “corriere della sera” o “l’unità”, quali Paolo Mieli e Furio Colombo,hanno espresso osservazioni critiche in ordine alle sentenze di condanna di Fioravanti ed altri.
Il primo, ad esempio, scrisse parole molto forti che non si prestano a troppe interpretazioni: “non ho dubbi: quel processo è da rifare e se contro i due terroristi dei Nar non verranno fuori le prove convincenti che fin qui non sono emerse dovremmo avere, tutti, l'onestà intellettuale di chiedere a gran voce che il marchio dell'infamia (limitatamente a quel che riguarda Bologna) venga tolto dalla fronte di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. Ripeto: tutti” .
Prese di posizione concrete e particolarmente significative provengono anche dal giornalismo televisivo.
Ennio Remondino, figura storica della RAI, notoriamente schierato a sinistra, condusse la famosa inchiesta relativa al falso tumore che nel 1981 garantì la scarcerazione del teste chiave Sparti, dovendo constatare che la cartella clinica di quest’ultimo era andata distrutta in uno strano incendio divampato, proprio poco tempo prima, all’interno dell’Ospedale San Camillo di Roma.
Di tale episodio, il giornalista ha riferito addirittura alla Commissione Stragi.
Altro contributo fondamentale a questa battaglia di Verità è stato fornito da Gianluca Semprini, giornalista di sky di manifeste simpatie per “l’ulivo”, che è l’autore di “La Strage di Bologna. Luigi Ciavardini: un caso giudiziario”.
Il libro, che può essere considerato a tutta ragione il manifesto stesso dell’innocenza di Ciavardini, viene diffuso dal nostro comitato nell’intero territorio nazionale e sta riscuotendo un successo enorme anche tra i giovanissimi.
Non da ultimo, merita di essere ricordata la posizione assunta da tempo da Sandro Provvisionato, giornalista di punta di Canale 5 proveniente ancora una volta da sinistra, che non si è limitato a manifestare l’innocenza degli imputati ma ha posto anche l’accento sul reale significato dei numerosi depistaggi operati dai servizi segreti deviati a danno di Ciavardini e degli altri: “è fragile il movente come sono evanescenti le prove: in pratica solo la “testimonianza” di un falsificatore di documenti, certo Massimiliano Sparti, legato alla banda della Magliana, smentito perfino dalla stessa moglie. Nel caso dei processi per la strage di Bologna in quattro casi su cinque ha però retto il teorema costruito dalla procura di Bologna, cieca perfino di fronte ai depistagli del Sismi, il servizio segreto militare che arriva a mettere una valigia di armi ed esplosivo sul treno Taranto – Bologna e a inventare una fantomatica operazione “terrore sui treni” da attribuire proprio ai neofascisti che saranno incriminati. Insomma un depistaggio che finisce col mettere gli inquirenti sulla pista che sarà poi alla base del teorema bolognese”.
Anche un opinionista di assoluto valore come Massimo Fini, difficilmente collocabile nelle tradizionali categorie politiche, è un convinto e vivace assertore dell’innocenza di Ciavardini e degli altri.
Le sentenze per la Strage di Bologna hanno suscitato forti perplessità anche negli ambienti artistici.
Vale la pena ricordare, a mero titolo esemplificativo, che al suddetto comitato “e se fossero innocenti?” aderirono sia il noto fotografo Oliviero Toscani che la celebre regista cinematografica Liliana Cavani, due persone notoriamente non schierate a destra.
Tornando al mondo della politica, merita un’attenzione particolare l’ambiente radicale, storicamente uno dei più sensibili per le questioni di Giustizia.
Uno dei rappresentanti storici dei radicali italiani, Marco Taradash, fu addirittura tra i primi in assoluto a riconoscere l’innocenza di Ciavardini, Fioravanti e Mambro.
Notevole è poi la battaglia intrapresa dal nuovo leader radicale, Daniele Capezzone, il quale non ha esitato, in occasione del venticinquesimo anniversario della Strage, di invocare persino la riapertura del processo contro i maggiorenni, Fioravanti e Mambro, reso definitivo come noto con una sentenza di condanna passata in giudicato.
Anche gli ex leader storici della sinistra e della destra radicale, pur nella loro siderale lontananza politica ed antropologica, sono accomunati da una chiara e netta posizione innocentista.
L’ex leader di “lotta continua”, Adriano Sofri, detenuto nel carcere di Pisa ha addirittura denunciato pubblicamente la questione sbalorditiva del falso tumore del teste chiave Sparti mentre Gabriele Adinolfi, ex laeder di “Terza Posizione”, è uno dei più determinati assertori dell’innocenzadi Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
E’ ovvio, dunque, che l’elevato numero di parlamentari di AN che si batte per il riconoscimento dell’innocenza di Ciavardini e degli altri costituisce solo una parte di questo “fronte” spontaneo dell’innocenza.
Significativa, in tal senso, è l’adesione al nostro comitato dell’onorevole Giulio Maceratini, già membro del precedente comitato “e se fossero innocenti?”, uno dei primi parlamentari italiani a manifestare pubblicamente in favore dell’innocenza di Ciavardini e degli altri.
E’ poi nota la battaglia per l’individuazione dei reali responsabili della Strage, condotta dall’onorevole Enzo Raisi e dall’onorevole Enzo Fragalà nell’ambito della commissione parlamentare Mitrokhin.
Una menzione del tutto particolare la merita l’onorevole Alberto Arrighi il quale non sì è limitato ad aderire al nostro comitato ma partecipa attivamente alle nostre iniziative nelle varie città italiane.
Notevole è poi la presa di posizione di autorevoli esponenti del Governo.
Il Ministro degli Esteri Gianfranco Fini proprio di recenteha dichiarato pubblicamente la propria convinzione dell’innocenza di Fioravanti, Mambro e Ciavardini mentre il Ministro delle Politiche Agricole Gianni Alemanno è impegnato attivamente in questa battaglia di Verità sin dai tempi in cui apparteneva alle organizzazioni giovanili del vecchio MSI.
In definitiva, l’innocenza di Ciavardini e degli altri trova consensi praticamente in tutti i partiti politici italiani.
A titolo di esempio, così da rendere un’idea compiuta della vastità di tale “fronte”, si può ricordare l’adesione ufficiale al nostro comitato dell’onorevole Massimo Polledri della Lega Nord, dell’onorevole Salvatore Marano di Forza Italia, dell’onorevole Francesco Crinò dei Nuovi Socialisti, dell’onorevole Emerenzio Barbieri dell’UDC.
Di straordinaria importanza risultano essere le prese di posizioni dei due ultimi presidenti della Commissione Stragi e della Commissione Mitrokhin, appartenenti uno all’area dell’ulivo e l’altro a quello del polo delle libertà,
L’onorevole Giovanni Pellegrino, esponente di primo piano dei DS nonché ex Presidente della Commissione Stragi, per principio non ha mai voluto esprimere giudizi in ordine al libero convincimento dei Giudici di Bologna.
Ha fatto molto di più.
Pellegrino ha espresso giudizi politici molto severi in ordine alla ricostruzione dei fatti offerta: “è una sentenza appesa nel vuoto”.
Le ragioni della critica serrata formulata da Pellegrino sono note. Il teorema giudiziario dei Giudici di Bologna ha perso di credibilità smarrendo per strada movente, mandanti e un discreto numero di imputati.
Pellegrino ha più volte sostenuto che è inconcepibile ed improponibile l’aver riproposto anche in tale processo lo schema interpretativo usato nel 1969 per piazza Fontana, dovendosi collocare la Strage di Bologna in oscuri e ben più complessi scenari internazionali.
Pellegrino ha espresso il suo rammarico in quanto la Commissione Strage non ha avuto il tempo per affrontare la vicenda relativa alla Strage di Bologna, consapevole del fatto che un’inchiesta parlamentare avrebbe potuto condurre all’individuazione di colpevoli differenti da quelli supposti dai magistrati.
A sua volta, l’onorevole Paolo Guzzanti, parlamentare di Forza Italia e Presidente della Commissione Mitrokhin, pur muovendo da punti di vista diametralmente opposti a quelli del collega Pellegrino, è un convinto sostenitore dell’innocenza di Ciavardini, Fioravanti e Mambro.
Il “fronte” dell’innocenza di Ciavardini vede poi spiccare, per autorevolezza e determinazione, addirittura l’onorevole Francesco Cossiga.
Lo storico esponente della DC era ministro dell’interno all’epoca della Strage di Bologna.
Fu proprio lui, riferendo alle Camere, ad indirizzare le indagini solamente nella direzione della destra.
Cossiga si è pentito amaramente dell’errore macroscopico che segnò l’inizio di questa vicenda giudiziaria.
Già da Capo dello, Stato chiese scusa alla destra per le ingiuste ed infamanti accuse ricevute, dichiarando pubblicamente che, per ripristinare la Verità, andava rimossa dalla lapide commemorativa la frase della strage fascista.
Ancora oggi, l’ex Presidente della Repubblica prosegue la sua tenace battaglia di Giustizia battendosi per l’innocenza di Ciavardini, Fioravanti e Mambro.
Cossiga, rimproverando la natura palesemente politica dell’accanimento giudiziario subito dai tre imputati, è arrivato a definire la sentenza di condanna “giacobina e leninista”.
Il cerchio dell’innocenza viene chiuso, infine, dalle posizioni diffuse persino nell’ambiente della magistratura.
A titolo esemplificativo, si vogliono menzionare le dichiarazioni formulate da Otello Lupacchini che nel corso della sua lunga carriera di magistrato è stato Giudice proprio a Bologna.
Detto magistrato, nel suo libro sulla famigerata banda della magliana – che sta ottenendo proprio questi giorni un evidente successo -, ha manifestato in modo ampio e diffuso le ragioni dela propria convinzione circa l’innocenza di Ciavardini, Mambro e Fioravanti.
Non è passato inosservato, del resto, il giudizio espresso con inusuale sincerità, nella medesima opera, proprio sulla Procura di Bologna a cui viene rimproverato un assai discutibile rapporto con gli strumenti indispensabili della logica.
E’ giunto, dunque, il momento di tirare le somme.
Politici di tutti i partiti, da destra a sinistra, si sono schierati in favore dell’innocenza di Ciavardini, Mambro e Fioravanti.
Giornalisti di tutte le aree politiche, da sinistra a destra, hanno scritto fiumi di inchiostro per spiegare le ragioni di questa innocenza.
Uomini di Governo sono arrivati ad esporsi pubblicamente per tentare di impedire un’ingiustizia colossale.
Un ex Capo di Stato si sta battendo disperatamente per difendere tre persone innocenti.
Anche nell’ambiente della magistratura qualcuno si è sentito in dovere di porre all’attenzione pubblica una seria questione di coscienza.
Tra la gente comune, questi sentimenti sono espressi con vigore e con sincerità ancora maggiore.
E’ unanime il timore che si possa ripetere il dramma umano e giudiziario di Sacco e Vanzetti.
La società italiana ha riconosciuto da tempo l’innocenza di Luigi Ciavardini, Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti.
E’ arrivata finalmente l’ora della Verità.
é una vergogna!!!
Che esponenti all'interno della giunta comunale,che si definiscono Democratici,stanno attuando una discriminazione nei confronti di ragazzi che non la pensano come voi(alla faccia della libertà di parola e di pensiero),e che non possono neanche difendersi a livello istituzionale,ma che sicuramente(cosi dicono) a livello legale sono già in atto denunce per diffamazione.
State montando una campagna discriminatoria,che i cittadini hanno ben compreso,che è pura propaganda ideologica.
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